Alcune riflessioni sul panpsichismo

L’articolo Panpsichismo: la teoria che può rivoluzionare la filosofia della mente1 di Philip Goff2 esplora in profondità una delle proposte più affascinanti e radicali nel campo della filosofia della mente: il panpsichismo. Questa teoria si pone come una via di mezzo innovativa rispetto alle tradizionali posizioni materialiste e dualiste, offrendo una chiave di lettura alternativa per affrontare il problema della coscienza.

Il materialismo, che ha dominato gran parte del dibattito filosofico e scientifico, sostiene che tutto ciò che esiste è essenzialmente riducibile a processi fisici e chimici. Tuttavia, questo approccio fatica a spiegare in modo soddisfacente il fenomeno dell’esperienza soggettiva, il “come” e il “perché” del sentire e del percepire. Il dualismo, d’altra parte, propone una separazione netta tra mente e corpo, postulando l’esistenza di una realtà non materiale che si occupa della coscienza. Ma anche questa visione incontra difficoltà, soprattutto quando si cerca di integrare in maniera coerente le interazioni tra la dimensione mentale e quella fisica.
Il panpsichismo afferma che la coscienza non sarebbe un attributo esclusivo degli esseri umani o degli organismi viventi, ma una proprietà intrinseca della materia stessa. In questo quadro, ogni componente dell’universo, dai quark alle galassie, possiede una forma rudimentale di esperienza, un proto-sentire. Ciò significa che la coscienza, lungi dall’essere un prodotto emergente di processi cerebrali complessi, sarebbe una caratteristica fondamentale e onnipervasiva della realtà.

L’articolo riporta le radici storiche di questo pensiero, evidenziando come il panpsichismo non sia una teoria nuova, ma abbia avuto esponenti illustri nel corso della storia della filosofia. Pensatori come Bertrand Russell e Arthur Eddington hanno lasciato intravedere l’idea che la fisica, pur descrivendo in modo preciso le strutture e i processi del mondo materiale, non riesca a cogliere l’essenza intrinseca delle cose. Questa “doppia faccia” della realtà, quella oggettiva e quella soggettiva, potrebbe essere superata se si ammette che la coscienza sia una proprietà fondamentale della materia.

Un esempio contemporaneo di sostenitore del panpsichismo (posizione alla quale sono vicini sia il Teilhard de Chardin3 che Federico Faggin4) è il filosofo Philip Goff, il quale ha approfondito questa teoria nel suo libro L’errore di Galileo. Goff racconta il suo percorso intellettuale, passando da una visione inizialmente materialista a quella panpsichista, spinto dalla consapevolezza che il materialismo tradizionale non riesce a spiegare adeguatamente il fenomeno della coscienza. Secondo lui, riconoscere una forma di esperienza anche nelle entità più semplici dell’universo potrebbe rappresentare la chiave per una nuova comprensione della realtà, capace di colmare il divario tra mente e materia.

Il panpsichismo, pur offrendo una visione affascinante e potenzialmente rivoluzionaria, non è esente da critiche e questioni irrisolte. Una delle principali sfide riguarda il cosiddetto “problema della combinazione”: se ogni particella possiede una forma minima di coscienza, come si fa a spiegare che, in organismi complessi come quello umano, queste esperienze basilari si integrino per dare origine a una coscienza unificata e complessa? Inoltre, l’idea che anche gli oggetti inanimati possano avere una forma di esperienza solleva interrogativi sulla natura stessa della vita e dell’intelligenza, portandoci a riconsiderare i confini tradizionali tra animato e inanimato.
L’articolo suggerisce che, nonostante le difficoltà interpretative e le domande ancora aperte, il panpsichismo rappresenta una prospettiva in grado di rivoluzionare la filosofia della mente. Abbracciando l’idea che la coscienza sia una caratteristica fondamentale dell’universo, questa teoria spinge a ripensare le relazioni tra il mondo fisico e quello esperienziale, offrendo una via per superare i limiti imposti dalle visioni materialiste e dualiste. Se confermata, una tale prospettiva potrebbe avere implicazioni profonde non solo per la filosofia, ma anche per le scienze cognitive e persino per la nostra concezione etica del mondo, suggerendo che la presenza di una forma di esperienza sia un attributo universale.

Ad un certo punto del testo, Goff afferma che quello che ha reso la fisica così efficace nel rispondere alle nostre domande è il fatto che la fisica ci dice come le cose si relazionano tra di loro e quindi ci permette di fare previsioni accurate, ma non ci dice nulla (né è il suo compito) sulla natura intrinseca delle cose stesse.
Noi non possiamo conoscere la natura intrinseca delle cose in generale, visto che abbiamo una percezione esterna ad esse. Questo è vero con una sola eccezione, ovvero il nostro corpo: ognuno di noi può verificare empiricamente che la natura intrinseca di noi (come oggetti fisici) è la nostra coscienza.
In realtà nell’articolo Goff dice una cosa leggermente diversa: afferma che la natura intrinseca del nostro cervello (inteso come oggetto materiale) è la nostra coscienza, ma non mi sento d’accordo ad attribuire al nostro cervello la proprietà di essere luogo esclusivo della nostra coscienza.

Dove si trova la coscienza?

Goff afferma che la natura intrinseca del nostro cervello (inteso come oggetto materiale) è la nostra coscienza. Cercando di fare attenzione a come io ho consapevolezza di me stesso, mi pare sia più preciso dire che la nostra coscienza è il centro del nostro corpo…
Se in un mondo fantascientifico riuscissimo realmente a separare completamente il cervello dal nostro corpo, isolandolo da esso pur mantenendolo in vita, immagino che questo cervello avrebbe probabilmente una qualche forma di esperienza cosciente, ma sarebbe estremamente più povera di quella che possiamo sperimentare come esseri dotati di un corpo.
Facciamo questo esperimento mentale: quando una persona diventa cieca (perché perde l’uso degli occhi), perde certamente una parte della sua esperienza cosciente (ci sarebbe un “vuoto” dove prima c’era l’esperienza visiva) ma le ricerche ci dicono che mano a mano che impara a far un miglior uso degli altri sensi (udito, tatto, olfatto) le aree della corteccia visiva non più utilizzate vengono perlopiù cooptate rispondendo ad altri stimoli, e la sua esperienza cosciente si arricchisce nuovamente, in maniera diversa da quella di prima5. Questo processo di ri-ampliamento dell’esperienza cosciente va di pari passo con la formazione di nuovi pathway neuronali all’interno del cervello. E’ stato provato che i ciechi usano comunque la corteccia visiva per farsi un’immagine lo spazio attorno a loro, nonostante non la usino per la vista vera e propria. Le informazioni che non provengono più dagli occhi vengono derivate dalla rielaborazione dei segnali provenienti dagli altri sensi.

Quindi, per la perdita di uno dei sensi, possiamo immaginare che l’esperienza possa essere comunque ricca, ma se perdessimo tutti i sensi? Sarebbe come essere immersi in una camera di deprivazione sensoriale.
Anzi, peggio, perché in una camera di deprivazione sensoriale il cervello riceve comunque i segnali provenienti dall’interno del corpo. Se pensassimo a un cervello isolato, non riceverebbe nemmeno quelli. Dopo poco tempo che una persona si trova in una camera di deprivazione sensoriale, essa inizia a vivere allucinazioni sonore e visive. Non so cosa succede se una persona rimane molto tempo, ma immagino che la mente e il senso di sé in qualche maniera si sfaldino6.
Quindi non mi sembra appropriato dire che la coscienza si trova nel cervello.

Chiedendo infine a ChatGpt se la coscienza si trova nel cervello o nel corpo ottengo questa risposta, che riassume le ricerche sul luogo della coscienza:

La coscienza umana è un fenomeno complesso che coinvolge sia il cervello che il corpo. Tradizionalmente, la coscienza è stata attribuita principalmente al cervello, in particolare alla corteccia cerebrale e a strutture come il talamo e il sistema reticolare attivatore, che regolano lo stato di veglia e l’attenzione. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che la coscienza non sia unicamente confinata al cervello, ma emergerebbe dall’interazione tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo.

Teorie principali sulla coscienza:

1. Coscienza come prodotto del cervello
– Secondo questa prospettiva neuroscientifica classica, la coscienza è il risultato dell’attività neuronale, in particolare delle connessioni tra diverse aree del cervello.
– Teorie come quella dell’integrazione dell’informazione (IIT di Giulio Tononi) e quella del Global Workspace (Bernard Baars) vedono la coscienza come un sistema distribuito che coordina ed elabora informazioni a livello cerebrale.
2. Il ruolo del corpo nella coscienza
– Teorie più recenti, come quella di Antonio Damasio, suggeriscono che il corpo gioca un ruolo cruciale nella coscienza attraverso le emozioni e la percezione interocettiva (cioè la consapevolezza del proprio stato corporeo).
– Il concetto di “cognizione incarnata” propone che la coscienza emerga dall’interazione tra cervello, corpo e ambiente.
3. La teoria della mente estesa
– Alcuni filosofi e scienziati cognitivi, come Andy Clark e David Chalmers, suggeriscono che la coscienza potrebbe non essere solo nel cervello, ma anche distribuita tra corpo e ambiente (ad esempio, l’uso di strumenti cognitivi esterni come la scrittura o la tecnologia).

Conclusione
Anche se il cervello è il principale “processore” della coscienza, il corpo e le sue sensazioni influenzano profondamente la nostra esperienza soggettiva. Quindi, la coscienza non è solo nel cervello, ma è il risultato di un sistema dinamico che coinvolge tutto l’organismo.


Forse si può dire che la coscienza è collocata funzionalmente principalmente nel cervello, ma in secondo ordine anche nel corpo, e probabilmente anche nell’ambiente esterno.
Esistono delle ricerche che dimostrano come l’uso abituale di un attrezzo (ad esempio un martello) fa in modo che anche l’attrezzo sia percepito (e trattato a livello sensomotorio) come una parte del corpo7. Quindi anche la percezione di quello che è il proprio corpo e di quello che è fuori non è rigida, ma è fluida.

Cosa sa un martello?

Una questione che mi sembra importante porsi è questa: se io uso un martello, e la mia percezione soggettiva è che il martello sia una estensione del mio corpo (quindi la mia coscienza “include” nel senso di sé anche la materia del martello), si viene a creare un qualche collegamento di coscienza tra il mio io e il martello? Gli atomi del martello “sanno” di essere parti di me, cambia qualcosa per loro?
La stessa domanda può essere posta per parti del nostro corpo: i mei capelli o le mie unghie “sanno” a un qualche livello di essere parti di me?
Probabilmente no… la struttura molecolare degli atomi del martello o delle unghie è ben diversa da quella del cervello. Tornando all’articolo, Goff scrive:

In secondo luogo, fatto forse ancora più decisivo, i panpsichisti non credono che una coscienza come la nostra sia in ogni dove. I pensieri e le emozioni complesse provati dagli esseri umani sono il risultato di milioni di anni di evoluzione per selezione naturale, ed è chiaro che le singole particelle non ne sono dotate. Se pure gli elettroni avessero una forma di esperienza, questa sarebbe inimmaginabilmente semplice.

Quindi, secondo i panpsichisti, il martello, o le mie unghie non possono “sapere” neanche lontanamente quanto “so” io.
Però è un bel rovesciamento di prospettiva pensare che il legame psichico che c’è tra me e il martello (in quanto lo percepisco come parte di me) si concretizzi nel legame fisico che c’è tra me e il martello. Cioè, la minuscola parte di coscienza degli atomi del martello “sa” a un livello infimo di essere parte di me, e questo loro sapere molto basilare si manifesta proprio nella fisica, ovvero nel fatto che il martello che tengo in mano può essere mosso secondo la mia volontà. Il legame è ovviamente fisico (gli atomi della mia mano possono imprimere moto a quelli del martello), ma possiamo speculare sull’idea che questo sia un epifenomeno del fatto che la consapevolezza degli atomi del martello è di essere solidali con gli atomi della mia mano che lo stringe.
Non so se questa prospettiva è falsificabile, ma può essere un passetto nella direzione di un rapporto più genuino con la realtà, anche (forse), nella creazione di un rapporto con la realtà tale da eludere le leggi fisiche conosciute, che proverebbe la realtà del rapporto psichico.

Una questione di forma mentis


Ho comunque l’impressione che la percezione della coscienza come situata nel cervello oppure nel corpo, oppure ancora più estesa anche al di fuori del corpo fisico dipenda dalla forma mentis del soggetto che si pone la questione.


Un intellettuale, che vive molto nei suoi pensieri, la percepirà nel cervello, un atleta che allenandosi continuamente è molto attento al suo corpo, la percepirà molto anche lì. Un mistico/ricercatore, che ha avuto esperienze di coscienza espansa (a me è capitato), la percepirà anche al di fuori del corpo. Come dice Marco Guzzi, (riprendendo gli insegnamenti buddhisti, mi pare), la coscienza tende ad attaccarsi ai contenuti, identificandosi con essi. Questi attaccamenti sono la causa della sofferenza, e imparare a staccare la propria coscienza, a disidentifcarsi, è la via della liberazione.
Meditando bene questo concetto, cioè che la nostra coscienza si identifica con quello su cui tendiamo ad appoggiare la nostra attenzione, non è così sorprendente notare che culture diverse dalla nostra, informati da stati di coscienza diversi, da modi diversi di collegarsi alla realtà, abbiano sviluppato teorie scientifiche diverse, direi complementari alla nostra. I saggi taoisti hanno sviluppato la teoria del qi (dei soffi), che vuole fornire una visione sistematica del modo in cui l’energia fluisce nel cosmo, e dentro e fuori dal corpo umano8.
Questa teoria (come quelle equivalenti nelle altre culture) rendono conto della percezione “mistica” dell’unità di tutte le cose che si ha in determinati stati di coscienza, quando il Sé si è liberato dall’ego. Una frase che riassume l’insegnamento delle Upanishad è Tat tvam asi (Quello tu sei). Quando la coscienza convenzionale si rompe, e attraverso di essa filtra la luce dell’Assoluto, allora percepiamo come ogni cosa sia connessa a tutte le altre, percepiamo l’unità del Tutto e percepiamo la beatitudine.
Già il fatto che le tradizioni sapienziali mondiali abbiano, in tempi e modi diversi, sviluppato visioni simili riguardo al nostro rapporto con l’universo, potrebbe essere comunque una prova per la persona ragionevole del fatto che la direzione verso la quale si sta dirigendo la scienza è questa. Essedo la verità unica, come la realtà. Quindi, godiamoci il viaggio.

  1. https://www.indiscreto.org/panpsichismo-la-teoria-che-puo-rivoluzionare-la-filosofia-della-mente/ ↩︎
  2. Philip Goff è un filosofo britannico, professore alla Durham University, la cui ricerca si svolge nell’ambito della filosofia della mente e della coscienza. Nel 2019 ha pubblicato L’errore di Galileo. Fondamenti per una nuova scienza della coscienza ↩︎
  3. F. Mantovani, Complessità-coscienza e panpsichismo (2012): https://www.biosferanoosfera.it/uploads/files/3aa721cb4bbf22b65adb7a329d989a941045e34f.pdf ↩︎
  4. Faggin discute del panpsichismo nel libro Irriducibile. La coscienza, la vita i computer e la nostra cultura. Mondadori (2022) ↩︎
  5. https://iapb.it/ciechi-con-sensi-potenziati/ ↩︎
  6. https://lamenteemeravigliosa.it/deprivazione-sensoriale-gli-spaventosi-effetti ↩︎
  7. https://www.lescienze.it/news/2009/06/24/news/strumenti_spazzolini_e_mappe_corporee-574501/ ↩︎
  8. una breve introduzione alla cosmologia cinese è presente in C. Larre, F. Berera, Filosofia della medicina tradizionale cinese; Jaca Books 1997 ↩︎

Solo il fantastico, è reale

Terza puntata. Dopo aver speso qualche parola sul tipo di universo in cui ci troviamo a vivere, e come si può interpretare anche il dato scientifico più aggiornato perché ci torni a “parlare” di nuovo, ora iniziamo a percorrere una suggestiva e misteriosa strada, che sembra capace di portarci, se la vogliamo seguire davvero, fino alle lontane stelle…

Come avverte un poeta contemporaneo rumeno, Valeriu Butulescu, “La poesia è nata la notte in cui l’uomo ha iniziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile”. Vi è dunque, all’origine dell’atto poetico, un primordiale atto di osservazione, di contemplazione, del cielo. Da qui in avanti la vera scienza non può che nutrirsi di meraviglia: il ricercatore ha bisogno non solo di dati e tabelle, proiezioni e statistiche, ma di attingere continuamente alla categoria del fantastico, per mantenere la mente aperta, ricettiva a quei segnali dall’universo, che altrimenti perderebbe. 

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Un universo in corsa

Seconda puntata. Dopo aver realizzato come il modo “moderno” di guardare al cosmo non possa più “far fuori” la parte irriducibile di mistero che anzi risulta necessaria per accrescere il fascino dell’indagine stessa, ora iniziamo a vedere meglio di che tipo di universo ci stiamo occupando.

Essere usciti da una concezione di universo “statico”, pieno di stagnanti certezze ma ultimamente vuoto di mistero, non è certo senza conseguenze. La nozione di un cosmo in espansione ha meritoriamente relegato alla storia delle idee, proprio quel paradigma di universo stazionario, che per molto tempo ha preso spazio nei testi di astronomia e cosmologia, e che purtroppo per tanta parte ancora occupa la nostra mente, informa e definisce il nostro stesso modo di ragionare.

Il Big Bang, questa sorta di esuberante inizio del “tutto” (certo, i fisici avvertono che non si è trattato propriamente di una esplosione, ma possiamo pensarlo un po’ come tale), introduce un irreversibile dinamismo nell’armonia delle sfere, e legittima una visione storica, abilita un senso di sviluppo che è avvitato nel tempo, imperniato nel divenire, nella trasformazione progressiva, nel non essere mai uguale a sé stessi.

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Dante e le stelle: un percorso poetico-scientifico…

Questo piccolo percorso tra poesia e scienza è nato per un incontro del progetto “L’isola visionaria” (presso l’I.C. Corradini a Roma), creatura della mia collega Carla Ribichini, in cui era presente l’astrofisico Marco Castellani.

Ho sempre amato la poesia e la sua incredibile versatilità: forse, nessuna applicazione dell’ingegno umano è moderna quanto la poesia. E in quanto applicazione dell’ingegno umano, si è fatta strada in me la convinzione che la poesia si sposi bene con la scienza. Poesia e scienza hanno in comune la ricerca della conoscenza.

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Sereno (un giro immortale)

Siamo giunti all’ultimo gradino del nostro itinerario,  del nostro viaggio tra fisica e filosofia (iniziato dagli antichi greci e approdato infine a  Heidegger). Attraverso le intuizioni di alcuni grandi filosofi abbiamo visto come cambia la visione dell’universo e della realtà in cui viviamo. La fisica contemporanea ci conferma di abitare un mistero del quale non siamo soltanto spettatori, ma co-creatori, attori incarnati, centri focali energetici e vibranti. Siamo universi noi stessi, infinitamente misteriosi.

Conclusioni

Che cosa possiamo dire al termine di questo excursus? Quale visione dell’universo e della realtà emergono dalle parole di questi filosofi? quale connessione essenziale con le scoperte della fisica contemporanea richiede di essere pensata ed elaborata assieme per preparare i presupposti di una nuova cultura?

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Una inaspettata pioggia di stelle

Nell’ora di letteratura, durante la lettura di un brano fantasy, i ragazzi si soffermano perplessi difronte alla parola disastro e alla forte prova di dolore affrontata dal protagonista. Quel dolore risuona tristemente nei loro cuori, chiedono una spiegazione più ampia, vogliono capire e sentirsi rassicurati

Riconosco molto bene quel dolore, sono molti anni che passo tra i banchi e puntualmente lo ritrovo nello sguardo spento e implorante, nella voce strozzata, nel gesto pieno di rabbia, nella parola violenta, nelle  lacrime amare e ribelli. Ciò che più fa male è non riuscire a decifrare l’origine del proprio dolore e sentirsi incapaci di viverlo; un dolore non riconosciuto e non accolto si trasforma in cinismo, rabbia e pericolosa indifferenza.  Solo risvegliando la sua parte più profonda,  l’essere umano può prendersi cura di sé e guarire il dolore.

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L’universo poetico

Vi sono parole intorno alle quali si possono dire cose sempre diverse, atteggiamenti e attitudini fondamentali, opzioni essenziali dello spettro delle possibilità umane. Parole cardine, intorno alle quali si possono far risplendere colori in maniera continuamente cangiante. Le parole sono importanti, ci avvertiva un saggio Nanni Moretti già diversi anni fa. Ne scelgo una, apparentemente lontana dal tema che ho scelto, che invece si dimostrerà — spero — essere la via più diretta per entrare davvero in argomento.

Prendiamo la parola umiltà. La si può approcciare in innumerevoli modi. Uno di questi, la cui evidenza mi colpisce continuamente, è che oggi, lo studio dell’uomo e insieme del cosmo, suggerisce proprio un atteggiamento di umiltà, derivante essenzialmente dal riconoscimento — forse mai stato così chiaro — di quante cose non sappiamo.

Quanta parte ignota nella conoscenza del cosmo!

Mai il socratico so di non sapere, a pensarci bene, è stato così manifesto, solo che lo si voglia guardare. Bisogna però, appunto, saperlo guardare. Vedere il quadro generale. Ad esempio, davanti al mare di notizie astronomiche che ci arrivano continuamente dai vari media (cosa certamente ottima), di fronte a scoperte così eclatanti come quella recentissima del sistema Trappist-1 con sette pianeti forse abitabili, chi pensa mai al fatto che in realtà più del 95% di tutto l’Universo è composto — secondo le teorie più accreditate — da qualcosa di cui non conosciamo la natura? Energia oscura e materia oscura insieme, nel quadro teorico attuale, rendono conto di quasi tutto l’Universo. Tutto, praticamente tutto. Tranne un misero 4,9%. Che poi è quello che compone la materia che conosciamo, ed è praticamente tutto ciò che sappiamo (in realtà ne sappiamo ancora meno, perché anche di quel 4.9% le cose ancora da capire non sono affatto poche…).

Comprendete cosa stiamo scoprendo? Consideriamo che quel piccolissimo 4,9% “visibile” è ciò che costituisce la Terra, il Sole, le stelle, i pianeti vicini e lontani, il nostro corpo, l’acqua che beviamo, il cibo che mangiamo… Quel che, nella vita ordinaria, ci sembra tutto, ed è appena, invece una piccola piccola parte, di un qualcosa di immensamente più esteso, ed invisibile agli occhi. La scienza ci viene a dire che la gran parte di quello che esiste, è qualcosa della quale non possiamo avere esperienza diretta: è in un certo senso fuori dal nostro mondo.

Credo allora che il primo messaggio da trattenere sia questo: quasi tutto quello che esiste, non si vede.

L’armonia nascosta è più potente dell’armonia manifesta, diceva Eraclito, già 2500 anni fa. E sembra proprio che i dati della ricerca cosmologica più recente, non facciano altro che confermare, anche dal punto di vista strettamente scientifico, l’asserzione del noto filosofo.

Cosa possiamo dire oggi, dal punto di vista astronomico, di questo quasi tuttoche è comunque inaccessibile ai nostri sensi? Cosa sappiamo davvero, di energia oscura e materia oscura?

Ebbene, l’energia oscura è un’ipotetica forma di energia non direttamente rilevabile, diffusa omogeneamente nello spazio. Si stima appunto che rappresenti circa il 68% della massa energia dell’universo (parliamo di “massa energia” perché sappiamo che massa ed energia sono in fondo completamente equivalenti, come ci ha insegnato Einstein). L’energia oscura è anche il modo più diffuso fra i cosmologi per spiegare l’espansione accelerata dell’universo, ovvero il fatto che i corpi celesti si allontanano l’uno dall’altro con velocità crescente (grossa sorpresa anche questa, scoperta solo in tempi recenti). Essa costituisce pertanto un’importante componente del cosiddetto “modello standard” della cosmologia basato sul Big Bang. A sua volta il Big Bang è la “storia” scientificamente più accreditata di formazione dell’universo di cui al momento disponiamo. Quella accettata dalla quasi totalità dei ricercatori, come ipotesi più realistica di formazione dell’universo, e quella che spiega meglio di ogni altra, i dati di cui disponiamo. Il nostro universo, secondo questo quadro, è nato circa 13,7 miliardi di anni fa, da un “grande scoppio”, e da allora è in continua fase di espansione.

Questo per quanto riguarda appunto l’energia oscura, così intimamente connessa alle dinamiche di inesausta espansione del nostro universo.

Con materia oscura si definisce invece un’ipotetica componente di materia che non è direttamente osservabile, in quanto, diversamente dalla materia conosciuta, non emette luce e si manifesta unicamente attraverso i suoi effetti gravitazionali. In base a diverse indagini sperimentali e ad una serie di evidenze indirette, si ritiene che la materia oscura costituisca una grande parte, quasi il 27%, della massa energia presente in totale nell’universo.

Ovvero, tirando le somme in maniera un po’ spiccia, ma sostanzialmente corretta: tra energia oscura e materia oscura, se il modello di universo tiene (e molti indizi ci dicono che tiene…), vuol dire una cosa molto importante: vuol dire che è quasi tutto invisibile, per noi.

Qui uno potrebbe pensare, va bene, lo studio del cosmo è peculiare e complicato. D’accordo. Ma che dire dell’uomo? Dell’uomo ormai sappiamo tutto. E invece non è affatto così. E la cosa curiosa è che anche qui andiamo a sbattere in percentuali molto simili, anche se meno rigorosamente definite. Leggo infatti dai trattati di psicologia come circa il 95% della nostra mente sia costituita dall’inconscio. Ovvero quel luogo dove avvengono processi psichici inaccessibili al cosiddetto pensiero cosciente, che esorbitano, in altre parole, dal pensiero razionale. Dunque anche qui la nostra razionalità si deve fermare, si deve arrendere, davanti ad una sostanziale ignoranza. Possiamo certo scandagliare l’inconscio, possiamo speculare sui suoi effetti, ma è un po’ come lanciare una sonda nello spazio: portiamo a casa dei dati preziosi, ma intorno rimane comunque il mistero più profondo. Siamo davanti all’evidenza di una zona non investigabile direttamente, ma che ha effetti decisivi sulla parte conosciuta. E vale, come vedete, tanto per lo “spazio al di fuori” (l’universo) quanto per lo “spazio al di dentro” (la psiche).

Questa straordinaria concordanza si è maturata solo in epoca recentissima, ed è certo significativa dei “tempi estremi” che stiamo vivendo.

Non so voi, ma personalmente questo alone così esteso di ‘non conosciuto’ non mi inquieta per niente, anzi lo trovo quasi rassicurante. Prendere atto di questo stato di cose, lungi dall’essere scoraggiante, implica invece che io non possa mai dire, né come uomo né come ricercatore, la terribile frase è tutto qui? Implica, dunque, la consapevolezza di avere davanti un cammino, un cammino che ci potrà riservare ancora molte sorprese. Un cammino che, io credo, potrà davvero svolgersi soltanto rinnovando la nostra mente, per adeguarci a comprendere ciò che ancora ci è oscuro.

Ed è qui che vorrei innestare una personale considerazione, che riguarda specificamente il modo di guardare a questo nostro limite, a questo nostro gigantesco non sapere. A mio avviso infatti un universo così ampiamentemisterioso è intrinsecamente un universo poetico. E’ cioè un universo al quale possiamo approcciarci in maniera soddisfacente, a livello umano, solo se non ci limitiamo ai parametri conoscitivi della scienza, ma ci apriamo ad un ambito più vasto. La scienza, lo abbiamo visto, ci circoscrive a quel piccolo 4.9%. Ed è una informazione straordinaria, precisa, limpida come non mai. D’accordo. Ma come riempire il resto? Di cosa riempirlo?

Non riempirlo, non è una scelta. Non è una opzione. Perché comunque la natura aborre il vuoto, e dunque verrebbe in ogni caso riempito. Da chiacchiere, pensieri, preoccupazioni, se non altro (come spesso avviene). Il nostro cielo è sempre composto, completo. Allora è necessario forse un atto di volontà, di focalizzazione. Decidiamo noi come riempire il cielo, creiamo il cielo da riempire. La scienza si fa da parte, ci lascia campo. Ed è un universo da riempire innanzitutto di senso, e dunque di poesia. La poesia è infatti, potremmo dire, il lavoro di dare un senso ultimo e corroborante all’insieme delle cose, di ricercarlo in modalità intuitiva, non razionalistica. E questo universo chiama ad un atto poetico, perché vuole farsi conoscere più intimamente che soltanto con l’indagine razionale.

E nello stesso tempo, la poesia stessa chiama l’universo, lo vuole a sé. Si stanno cercando, vedete. E’ un rapporto di desiderio, di mutuo desiderio.

Se non ci credete, ascoltate cosa dice Ungaretti, in una della sue “Poesie Sparse”

I Giorni e le Notti suonano / in questi miei nervi d’arpa // Vivo / di questa gioia malata / d’universo / e soffro / per non saperla accendere / nelle mie parole

La gioia del poeta è malata di universo perché vuole la totalità, non si accontenta di niente di meno del tutto. L’universo. Viene a riempire il vuoto che lascia la scienza, e non certo usurpando o calpestando il suo lavoro. Piuttosto, viene a saldarsi alla costruzione scientifica per restituire un sapere più globale all’uomo. Non si tratta infatti di andare contro la scienza, si tratta di ritornare ad un’idea di uomo più completa, che integri il sapere scientifico all’interno della più vasta conoscenza umana.

Ecco allora cos’è l’universo poetico: è lo spazio di conoscenza, in prospettiva, di un uomo che torna completo. Che integra dentro di sé i diversi saperi, ben sapendo che in ultima analisi non sono diversi affatto.

Cosciente della infinita sproporzione tra me ed Ungaretti (poeta che ammiro visceralmente) così provo anche io a dire nella poesia “Multiversi”, della raccolta “In pieno volo”:

Guardo intanto / la poesia più nostra // La modulazione flebile / di onde elastiche tese / rese trasparenti dal sole / e l’ombra. // Che si succedono intime / negli immensi spazi interni. // Dove aspetti me / è dove io ti aspetto / a balbettare l’idea pazza di compimento / di là di ogni ombra, ogni male. // Così le campane suonano — adesso — che impudica inarchi / la pazienza non detta / portata a pelle come diadema. / L’unico ornamento del resto // più bello ed essenziale / di te, nuda. // L’unico profumo più soave / del tuo stesso odore. // Ed ogni tuo piegarsi / è mostrare, invitare: / creare tempo e spazio. // Perciò lo vedo / Tra chi non si mischia di poesia e chi si imbratta invece / — camminando a filo tra ridicolo e sublime — / piovono grappoli di orizzonti, miriadi di universi. // Come tra un “no” e un “così sia” / tale è distanza / che l’infinito stesso è poca cosa.

Perché so che sono appena all’inizio del viaggio di scoperta (del cosmo e di me stesso), ogni atteggiamento più o meno arrogante sarebbe decisamente fuori luogo. Come sarebbe fuori luogo ogni tentazione di razionalismo che limitasse il reale al razionalmente conoscibile (“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie — oracolo del Signore”, Is. 55,8)Molto meglio sarebbe arrendersi, ammettere che vi sono realtà che superano infinitamente la mia comprensione.

E la attitudine più giusta tornerebbe dunque ad essere l’umiltà, la coscienza tenera e liberante delle proprie capacità e dei propri limiti.

Testo del mio intervento su invito presso l’associazione Frascati Poesia, svolto in data 6 marzo 2017.

 

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