Alcune riflessioni sul panpsichismo

L’articolo Panpsichismo: la teoria che può rivoluzionare la filosofia della mente1 di Philip Goff2 esplora in profondità una delle proposte più affascinanti e radicali nel campo della filosofia della mente: il panpsichismo. Questa teoria si pone come una via di mezzo innovativa rispetto alle tradizionali posizioni materialiste e dualiste, offrendo una chiave di lettura alternativa per affrontare il problema della coscienza.

Il materialismo, che ha dominato gran parte del dibattito filosofico e scientifico, sostiene che tutto ciò che esiste è essenzialmente riducibile a processi fisici e chimici. Tuttavia, questo approccio fatica a spiegare in modo soddisfacente il fenomeno dell’esperienza soggettiva, il “come” e il “perché” del sentire e del percepire. Il dualismo, d’altra parte, propone una separazione netta tra mente e corpo, postulando l’esistenza di una realtà non materiale che si occupa della coscienza. Ma anche questa visione incontra difficoltà, soprattutto quando si cerca di integrare in maniera coerente le interazioni tra la dimensione mentale e quella fisica.
Il panpsichismo afferma che la coscienza non sarebbe un attributo esclusivo degli esseri umani o degli organismi viventi, ma una proprietà intrinseca della materia stessa. In questo quadro, ogni componente dell’universo, dai quark alle galassie, possiede una forma rudimentale di esperienza, un proto-sentire. Ciò significa che la coscienza, lungi dall’essere un prodotto emergente di processi cerebrali complessi, sarebbe una caratteristica fondamentale e onnipervasiva della realtà.

L’articolo riporta le radici storiche di questo pensiero, evidenziando come il panpsichismo non sia una teoria nuova, ma abbia avuto esponenti illustri nel corso della storia della filosofia. Pensatori come Bertrand Russell e Arthur Eddington hanno lasciato intravedere l’idea che la fisica, pur descrivendo in modo preciso le strutture e i processi del mondo materiale, non riesca a cogliere l’essenza intrinseca delle cose. Questa “doppia faccia” della realtà, quella oggettiva e quella soggettiva, potrebbe essere superata se si ammette che la coscienza sia una proprietà fondamentale della materia.

Un esempio contemporaneo di sostenitore del panpsichismo (posizione alla quale sono vicini sia il Teilhard de Chardin3 che Federico Faggin4) è il filosofo Philip Goff, il quale ha approfondito questa teoria nel suo libro L’errore di Galileo. Goff racconta il suo percorso intellettuale, passando da una visione inizialmente materialista a quella panpsichista, spinto dalla consapevolezza che il materialismo tradizionale non riesce a spiegare adeguatamente il fenomeno della coscienza. Secondo lui, riconoscere una forma di esperienza anche nelle entità più semplici dell’universo potrebbe rappresentare la chiave per una nuova comprensione della realtà, capace di colmare il divario tra mente e materia.

Il panpsichismo, pur offrendo una visione affascinante e potenzialmente rivoluzionaria, non è esente da critiche e questioni irrisolte. Una delle principali sfide riguarda il cosiddetto “problema della combinazione”: se ogni particella possiede una forma minima di coscienza, come si fa a spiegare che, in organismi complessi come quello umano, queste esperienze basilari si integrino per dare origine a una coscienza unificata e complessa? Inoltre, l’idea che anche gli oggetti inanimati possano avere una forma di esperienza solleva interrogativi sulla natura stessa della vita e dell’intelligenza, portandoci a riconsiderare i confini tradizionali tra animato e inanimato.
L’articolo suggerisce che, nonostante le difficoltà interpretative e le domande ancora aperte, il panpsichismo rappresenta una prospettiva in grado di rivoluzionare la filosofia della mente. Abbracciando l’idea che la coscienza sia una caratteristica fondamentale dell’universo, questa teoria spinge a ripensare le relazioni tra il mondo fisico e quello esperienziale, offrendo una via per superare i limiti imposti dalle visioni materialiste e dualiste. Se confermata, una tale prospettiva potrebbe avere implicazioni profonde non solo per la filosofia, ma anche per le scienze cognitive e persino per la nostra concezione etica del mondo, suggerendo che la presenza di una forma di esperienza sia un attributo universale.

Ad un certo punto del testo, Goff afferma che quello che ha reso la fisica così efficace nel rispondere alle nostre domande è il fatto che la fisica ci dice come le cose si relazionano tra di loro e quindi ci permette di fare previsioni accurate, ma non ci dice nulla (né è il suo compito) sulla natura intrinseca delle cose stesse.
Noi non possiamo conoscere la natura intrinseca delle cose in generale, visto che abbiamo una percezione esterna ad esse. Questo è vero con una sola eccezione, ovvero il nostro corpo: ognuno di noi può verificare empiricamente che la natura intrinseca di noi (come oggetti fisici) è la nostra coscienza.
In realtà nell’articolo Goff dice una cosa leggermente diversa: afferma che la natura intrinseca del nostro cervello (inteso come oggetto materiale) è la nostra coscienza, ma non mi sento d’accordo ad attribuire al nostro cervello la proprietà di essere luogo esclusivo della nostra coscienza.

Dove si trova la coscienza?

Goff afferma che la natura intrinseca del nostro cervello (inteso come oggetto materiale) è la nostra coscienza. Cercando di fare attenzione a come io ho consapevolezza di me stesso, mi pare sia più preciso dire che la nostra coscienza è il centro del nostro corpo…
Se in un mondo fantascientifico riuscissimo realmente a separare completamente il cervello dal nostro corpo, isolandolo da esso pur mantenendolo in vita, immagino che questo cervello avrebbe probabilmente una qualche forma di esperienza cosciente, ma sarebbe estremamente più povera di quella che possiamo sperimentare come esseri dotati di un corpo.
Facciamo questo esperimento mentale: quando una persona diventa cieca (perché perde l’uso degli occhi), perde certamente una parte della sua esperienza cosciente (ci sarebbe un “vuoto” dove prima c’era l’esperienza visiva) ma le ricerche ci dicono che mano a mano che impara a far un miglior uso degli altri sensi (udito, tatto, olfatto) le aree della corteccia visiva non più utilizzate vengono perlopiù cooptate rispondendo ad altri stimoli, e la sua esperienza cosciente si arricchisce nuovamente, in maniera diversa da quella di prima5. Questo processo di ri-ampliamento dell’esperienza cosciente va di pari passo con la formazione di nuovi pathway neuronali all’interno del cervello. E’ stato provato che i ciechi usano comunque la corteccia visiva per farsi un’immagine lo spazio attorno a loro, nonostante non la usino per la vista vera e propria. Le informazioni che non provengono più dagli occhi vengono derivate dalla rielaborazione dei segnali provenienti dagli altri sensi.

Quindi, per la perdita di uno dei sensi, possiamo immaginare che l’esperienza possa essere comunque ricca, ma se perdessimo tutti i sensi? Sarebbe come essere immersi in una camera di deprivazione sensoriale.
Anzi, peggio, perché in una camera di deprivazione sensoriale il cervello riceve comunque i segnali provenienti dall’interno del corpo. Se pensassimo a un cervello isolato, non riceverebbe nemmeno quelli. Dopo poco tempo che una persona si trova in una camera di deprivazione sensoriale, essa inizia a vivere allucinazioni sonore e visive. Non so cosa succede se una persona rimane molto tempo, ma immagino che la mente e il senso di sé in qualche maniera si sfaldino6.
Quindi non mi sembra appropriato dire che la coscienza si trova nel cervello.

Chiedendo infine a ChatGpt se la coscienza si trova nel cervello o nel corpo ottengo questa risposta, che riassume le ricerche sul luogo della coscienza:

La coscienza umana è un fenomeno complesso che coinvolge sia il cervello che il corpo. Tradizionalmente, la coscienza è stata attribuita principalmente al cervello, in particolare alla corteccia cerebrale e a strutture come il talamo e il sistema reticolare attivatore, che regolano lo stato di veglia e l’attenzione. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che la coscienza non sia unicamente confinata al cervello, ma emergerebbe dall’interazione tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo.

Teorie principali sulla coscienza:

1. Coscienza come prodotto del cervello
– Secondo questa prospettiva neuroscientifica classica, la coscienza è il risultato dell’attività neuronale, in particolare delle connessioni tra diverse aree del cervello.
– Teorie come quella dell’integrazione dell’informazione (IIT di Giulio Tononi) e quella del Global Workspace (Bernard Baars) vedono la coscienza come un sistema distribuito che coordina ed elabora informazioni a livello cerebrale.
2. Il ruolo del corpo nella coscienza
– Teorie più recenti, come quella di Antonio Damasio, suggeriscono che il corpo gioca un ruolo cruciale nella coscienza attraverso le emozioni e la percezione interocettiva (cioè la consapevolezza del proprio stato corporeo).
– Il concetto di “cognizione incarnata” propone che la coscienza emerga dall’interazione tra cervello, corpo e ambiente.
3. La teoria della mente estesa
– Alcuni filosofi e scienziati cognitivi, come Andy Clark e David Chalmers, suggeriscono che la coscienza potrebbe non essere solo nel cervello, ma anche distribuita tra corpo e ambiente (ad esempio, l’uso di strumenti cognitivi esterni come la scrittura o la tecnologia).

Conclusione
Anche se il cervello è il principale “processore” della coscienza, il corpo e le sue sensazioni influenzano profondamente la nostra esperienza soggettiva. Quindi, la coscienza non è solo nel cervello, ma è il risultato di un sistema dinamico che coinvolge tutto l’organismo.


Forse si può dire che la coscienza è collocata funzionalmente principalmente nel cervello, ma in secondo ordine anche nel corpo, e probabilmente anche nell’ambiente esterno.
Esistono delle ricerche che dimostrano come l’uso abituale di un attrezzo (ad esempio un martello) fa in modo che anche l’attrezzo sia percepito (e trattato a livello sensomotorio) come una parte del corpo7. Quindi anche la percezione di quello che è il proprio corpo e di quello che è fuori non è rigida, ma è fluida.

Cosa sa un martello?

Una questione che mi sembra importante porsi è questa: se io uso un martello, e la mia percezione soggettiva è che il martello sia una estensione del mio corpo (quindi la mia coscienza “include” nel senso di sé anche la materia del martello), si viene a creare un qualche collegamento di coscienza tra il mio io e il martello? Gli atomi del martello “sanno” di essere parti di me, cambia qualcosa per loro?
La stessa domanda può essere posta per parti del nostro corpo: i mei capelli o le mie unghie “sanno” a un qualche livello di essere parti di me?
Probabilmente no… la struttura molecolare degli atomi del martello o delle unghie è ben diversa da quella del cervello. Tornando all’articolo, Goff scrive:

In secondo luogo, fatto forse ancora più decisivo, i panpsichisti non credono che una coscienza come la nostra sia in ogni dove. I pensieri e le emozioni complesse provati dagli esseri umani sono il risultato di milioni di anni di evoluzione per selezione naturale, ed è chiaro che le singole particelle non ne sono dotate. Se pure gli elettroni avessero una forma di esperienza, questa sarebbe inimmaginabilmente semplice.

Quindi, secondo i panpsichisti, il martello, o le mie unghie non possono “sapere” neanche lontanamente quanto “so” io.
Però è un bel rovesciamento di prospettiva pensare che il legame psichico che c’è tra me e il martello (in quanto lo percepisco come parte di me) si concretizzi nel legame fisico che c’è tra me e il martello. Cioè, la minuscola parte di coscienza degli atomi del martello “sa” a un livello infimo di essere parte di me, e questo loro sapere molto basilare si manifesta proprio nella fisica, ovvero nel fatto che il martello che tengo in mano può essere mosso secondo la mia volontà. Il legame è ovviamente fisico (gli atomi della mia mano possono imprimere moto a quelli del martello), ma possiamo speculare sull’idea che questo sia un epifenomeno del fatto che la consapevolezza degli atomi del martello è di essere solidali con gli atomi della mia mano che lo stringe.
Non so se questa prospettiva è falsificabile, ma può essere un passetto nella direzione di un rapporto più genuino con la realtà, anche (forse), nella creazione di un rapporto con la realtà tale da eludere le leggi fisiche conosciute, che proverebbe la realtà del rapporto psichico.

Una questione di forma mentis


Ho comunque l’impressione che la percezione della coscienza come situata nel cervello oppure nel corpo, oppure ancora più estesa anche al di fuori del corpo fisico dipenda dalla forma mentis del soggetto che si pone la questione.


Un intellettuale, che vive molto nei suoi pensieri, la percepirà nel cervello, un atleta che allenandosi continuamente è molto attento al suo corpo, la percepirà molto anche lì. Un mistico/ricercatore, che ha avuto esperienze di coscienza espansa (a me è capitato), la percepirà anche al di fuori del corpo. Come dice Marco Guzzi, (riprendendo gli insegnamenti buddhisti, mi pare), la coscienza tende ad attaccarsi ai contenuti, identificandosi con essi. Questi attaccamenti sono la causa della sofferenza, e imparare a staccare la propria coscienza, a disidentifcarsi, è la via della liberazione.
Meditando bene questo concetto, cioè che la nostra coscienza si identifica con quello su cui tendiamo ad appoggiare la nostra attenzione, non è così sorprendente notare che culture diverse dalla nostra, informati da stati di coscienza diversi, da modi diversi di collegarsi alla realtà, abbiano sviluppato teorie scientifiche diverse, direi complementari alla nostra. I saggi taoisti hanno sviluppato la teoria del qi (dei soffi), che vuole fornire una visione sistematica del modo in cui l’energia fluisce nel cosmo, e dentro e fuori dal corpo umano8.
Questa teoria (come quelle equivalenti nelle altre culture) rendono conto della percezione “mistica” dell’unità di tutte le cose che si ha in determinati stati di coscienza, quando il Sé si è liberato dall’ego. Una frase che riassume l’insegnamento delle Upanishad è Tat tvam asi (Quello tu sei). Quando la coscienza convenzionale si rompe, e attraverso di essa filtra la luce dell’Assoluto, allora percepiamo come ogni cosa sia connessa a tutte le altre, percepiamo l’unità del Tutto e percepiamo la beatitudine.
Già il fatto che le tradizioni sapienziali mondiali abbiano, in tempi e modi diversi, sviluppato visioni simili riguardo al nostro rapporto con l’universo, potrebbe essere comunque una prova per la persona ragionevole del fatto che la direzione verso la quale si sta dirigendo la scienza è questa. Essedo la verità unica, come la realtà. Quindi, godiamoci il viaggio.

  1. https://www.indiscreto.org/panpsichismo-la-teoria-che-puo-rivoluzionare-la-filosofia-della-mente/ ↩︎
  2. Philip Goff è un filosofo britannico, professore alla Durham University, la cui ricerca si svolge nell’ambito della filosofia della mente e della coscienza. Nel 2019 ha pubblicato L’errore di Galileo. Fondamenti per una nuova scienza della coscienza ↩︎
  3. F. Mantovani, Complessità-coscienza e panpsichismo (2012): https://www.biosferanoosfera.it/uploads/files/3aa721cb4bbf22b65adb7a329d989a941045e34f.pdf ↩︎
  4. Faggin discute del panpsichismo nel libro Irriducibile. La coscienza, la vita i computer e la nostra cultura. Mondadori (2022) ↩︎
  5. https://iapb.it/ciechi-con-sensi-potenziati/ ↩︎
  6. https://lamenteemeravigliosa.it/deprivazione-sensoriale-gli-spaventosi-effetti ↩︎
  7. https://www.lescienze.it/news/2009/06/24/news/strumenti_spazzolini_e_mappe_corporee-574501/ ↩︎
  8. una breve introduzione alla cosmologia cinese è presente in C. Larre, F. Berera, Filosofia della medicina tradizionale cinese; Jaca Books 1997 ↩︎

La danza cosmica di miliardi di stelle

Disponibile anche il secondo video del progetto Darsi Spazio. Una breve descrizione e soprattutto, un invito alla visione.

Nell’articolo precedente è stato introdotto il progetto Darsi Spazio, che è già arrivato alla pubblicazione del secondo dei sei dialoghi previsti per quest’anno (uno al mese, fino a giugno).

Lo spunto di partenza di questo dialogo è una frase di Marco Guzzi, pubblicata su Facebook qualche tempo fa

… soltanto lo Spirito che in questo istante sta dando la vita alle foglie del ficus sul mio terrazzo, soltanto la Potenza creatrice che mi sta donando questo esile respiro, dolcissimo e tenue filo di vita, soltanto la Mente geniale che lascia ruotare le galassie nella loro danza nucleare, potrà guidare anche i nostri passi.

Colpiti e confortati da questo pensiero largo, che considera tanto le foglie di una pianta sul terrazzo di casa quanto le galassie nella loro danza nucleare, ci siamo chiesti cosa possiamo dire di questi meravigliosi fenomeni di danze stellari, cosa accade nello spazio intorno a noi, se la galassia di Andromeda si “scontrerà” con la nostra in un remoto futuro e se sarà realmente un evento traumatico, come la mente sarebbe portata a credere.

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In partenza per lo spazio

La gestazione è stata lunga, l’idea di base ci era venuta diversi mesi fa. C’è voluto però un lavoro paziente di messa a fuoco, di limatura, di cura del dettaglio, di valutazione tecnica. Incontrarci, ogni tanto, riparlarne. Sfrondare dalle cose inutili, definire i contorni, piano piano.

Tutto perché il nostro obiettivo venisse più chiaramente portato alla luce: l’obiettivo cioè di rendere un servizio (innanzitutto ai praticanti Darsi Pace, ma più generalmente a chiunque sia interessato). Parlare del cosmo dal punto di vista scientifico, filosofico e spirituale insieme, onorando e raccogliendo – in prima istanza – tanti spunti che vengono dal percorso Darsi Pace, così intrinsecamente e splendidamente cosmico. Era davvero diventata una esigenza, per noi.

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Siamo più delle macchine: Federico Faggin al Festival della Letteratura di Mantova

Riporto alcuni appunti riguardo all’incontro di Federico Faggin (che tutti conosciamo) intervistato da Elisabetta Tola (giornalista scientifica, conduttrice della trasmissione Radio3Scienza) sul tema “Siamo più delle macchine”. Il resoconto è intervallato da alcune mie considerazioni, evidenziate in corsivo.

L’incontro è iniziato con una presentazione biografica di Federico Faggin, a partire dalla sua infanzia a Vicenza, gli studi e le sue imprese alla Silicon Valley, che l’hanno portato a interrogarsi sul substrato fisico della consapevolezza. In seguito ad alcune cruciali esperienze spirituali, che hanno rigenerato il suo punto di vista sul rapporto tra realtà fisica e coscienza, Federico è stato costretto a rivedere completamente l’approccio teoretico con il quale aveva affrontato il problema della coscienza, trovando nel contempo la via per uscire dalla crisi di senso (propria dell’uomo moderno) nella quale il suo animo era imprigionato. In questo percorso ha creato una fondazione con lo scopo di promuovere la scienza della consapevolezza.


Il suo discorso parte dalla considerazione che nell’universo possono essere identificati due aspetti complementari: un aspetto creativo e un aspetto algoritmico. L’aspetto creativo si esprime nell’animo umano, che si impegna e riesce a risolvere i problemi che l’esistenza gli sottopone, e che inoltre si dedica allo sviluppo delle arti, alla ricerca della verità e della bellezza. La creatività non è propria solo dell’umano, ma di tutta la vita in genere. Ogni essere vivente, dal più semplice al più complesso, è impegnato a risolvere problemi che gli sottopone l’esistenza e, e come noi, lo fa in maniera creativa, secondo le capacità di cui è dotato. Di contro, l’aspetto algoritmico consiste in tutte quelle attività che riconosciamo come meccaniche e riconducibili a fenomeni deterministici. La ricerca scientifica si è concentrata sugli aspetti deterministici, e quindi abbiamo scoperto l’esistenza di leggi fisiche cui risponde la materia. Il punto è che anche la materia vivente risponde alle leggi fisiche, ma essa non è determinata solamente da queste: in essa è presente anche un aspetto creativo. Il problema della scienza (e anche della civiltà occidentale, ora globalizzata) consiste nell’aver perso di vista il valore “cosmico” dell’aspetto creativo della realtà.

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Dubbi e pseudo-dubbi: educare il giudizio critico

I dubbi sono indispensabili al pensiero critico; ma ultimamente una certa categoria di pseudo-dubbi eretti a una specie di moda-mito impazza nel pubblico sentire, inquina e non fortifica le menti. Come funzionano e come riconoscerli.

Guardandomi intorno, fra le notizie, nei social, nei molti discorsi, più o meno argomentati, che seguiamo o promuoviamo, vedo spesso un fenomeno che anni fa sarebbe apparso bizzarro, mentre oggi va per la maggiore passando tranquillamente senza filtro alcuno. Mi riferisco all’argomento del “dubbio” come forma di interrogazione e critica verso gli argomenti più disparati, il più delle volte finalizzato a contestare il così detto “pensiero main stream”. Sono tanti e infiniti: il dubbio verso i vaccini, i dubbi verso il gasdotto TAP, i dubbi verso il riscaldamento globale (negazionisti climatici) o magari i dubbi verso la teoria dell’evoluzione biologica (creazionismo)…. Il dubbio viene spesso presentato come bandiera vincente, come un valore in sé. Ci hanno infatti insegnato fin dalla scuola media che la cultura del dubbio è il germe vitale della filosofia: Socrate in fondo era uno che dubitava quando diceva di sapere di non sapere? Cartesio, poi, ha elevato il dubbio al rango di metodo generalizzato. Nel metodo scientifico, poi, il dubbio – il non fidarsi di primo acchito delle apparenze – è cruciale: è proprio nella messa in dubbio delle conoscenze acquisite che si attua il progresso e si giunge a nuove conoscenze. Senza nutrire dubbi sulla teoria geocentrica non sarebbe stato possibile elaborare quella eliocentrica; senza dubbi sulla completezza della fisica newtoniana non sarebbe stato possibile elaborare la teoria della relatività… Allora ecco che il dubbio, sacralizzato quasi da un’aura mitica, diventa paradigma. E nell’era dei social dove le informazioni piovono a fiotti, dove con Wikipedia si può avere accesso a una marea di informazioni di livello tutto sommato buono ma spesso parziale, dove abbondano i tuttologi, il dubbio diventa appunto mito assoluto: cosa meglio di un bel dubbio per argomentare qualsiasi cosa?

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Sereno (un giro immortale)

Siamo giunti all’ultimo gradino del nostro itinerario,  del nostro viaggio tra fisica e filosofia (iniziato dagli antichi greci e approdato infine a  Heidegger). Attraverso le intuizioni di alcuni grandi filosofi abbiamo visto come cambia la visione dell’universo e della realtà in cui viviamo. La fisica contemporanea ci conferma di abitare un mistero del quale non siamo soltanto spettatori, ma co-creatori, attori incarnati, centri focali energetici e vibranti. Siamo universi noi stessi, infinitamente misteriosi.

Conclusioni

Che cosa possiamo dire al termine di questo excursus? Quale visione dell’universo e della realtà emergono dalle parole di questi filosofi? quale connessione essenziale con le scoperte della fisica contemporanea richiede di essere pensata ed elaborata assieme per preparare i presupposti di una nuova cultura?

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Martin Heidegger e il poetico

Stiamo per raggiungere la fine, e in questa ultima tappa del nostro viaggio tra fisica e filosofia (siamo partiti dalla filosofia greca, per giungere alle soglie della modernità con Giordano Bruno e la svolta copernicana, ci siamo quindi soffermati sulla rivoluzione operata da Kant, e abbiamo infine esaminato il pensiero di Nietzsche) incontriamo uno dei pensatori più importanti del ‘900: Martin Heidegger.

Anche qui, ci facciamo accompagnare da questo grande filosofo essenzialmente per ciò che abbiamo a cuore in questo scritto: cercare di capire quale via, quale direzione potrebbero indicarci queste grandi svolte nel pensiero che ci precede, per procedere oltre però, cercando di rimanere fedeli alla missione che questi stessi autori ci hanno indicato.

Martin Heidegger (Permission and copyright by dr. Hermann Heidegger)

Bene, Heidegger può aiutarci a proseguire lungo questa scia che da Bruno, passando per Kant e poi per Nietzsche, quasi ci costringe a tentare una nuova interpretazione dell’universo e della realtà, e quindi anche dell’essenza dell’uomo.

Egli fin dai suoi primi scritti affronta il problema della realtà delle cose, ovvero della domanda fondamentale della filosofia: che cos’è l’essere?

Qualsiasi cosa prendiamo in considerazione infatti, possiamo dire che è, che in qualche modo partecipa dell’essere, che è come un minimo comune denominatore di tutta la realtà. Il problema che Heidegger pone tuttavia è il seguente: come è possibile che l’essere sia, allo stesso tempo, ciò che di più evidente possiamo affermare circa l’essenza delle cose, eppure ciò che è più indefinibile?

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Friedrich Nietzsche e il cambio di paradigma

“La nuova concezione del mondo: un dialogo fra fisica e filosofia” (quarto capitolo)

In questo umile cammino del pensiero, stiamo cercando di intravedere i tratti misteriosi ma incalzanti di una trama che attraversando i secoli ci conduce, proprio ora, ad una nuova visione dell’universo e della realtà dell’essere umano. Siamo partiti infatti dalla filosofia greca, per giungere alle soglie della modernità con Giordano Bruno e la svolta copernicana. Da ultimo ci siamo soffermati sulla rivoluzione operata da Kant, per la quale siamo chiamati a mutare profondamente il rapporto fra l’oggetto di ogni conoscenza e il nostro stesso sguardo. In questo nuovo capitolo infatti questa intuizione viene approfondita, aprendo a nuove e inedite scoperte.

Facciamo ancora un passo oltre. So che mi starete un poco odiando con tutti questi filosofi e concetti e astrazioni, ma credetemi, ne varrà la pena, perché credo che stiate intuendo quale grande apertura di prospettiva si stia lentamente annunciando attraverso questi grandi pensatori.

Ebbene, spostando il nostro orologio ideale alla seconda metà dell’ottocento arriviamo a Friedrich Nietzsche, un pensatore che ha segnato la nostra storia recente, al di là del bene e del male direi. Nietzsche ci interessa perché sviluppa e prosegue sulla scia di Kant alcune intuizioni che poi saranno pienamente sviluppate dalla fisica teorica contemporanea.

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Immanuel Kant e la rivoluzione copernicana

“La nuova concezione del mondo: un dialogo fra fisica e filosofia” (terzo capitolo)

Proseguiamo il nostro viaggio nello spazio e nel tempo (dopo aver pubblicato già una prima e una seconda puntata), anche se, forse, una precisazione è d’obbligo. Ciò che anima questo scritto è essenzialmente un intento creativo e poetico; vorremmo cioè cercare di capire come lo sviluppo del pensiero filosofico si intrecci con quello scientifico in una unità che però è costitutiva nel cambio di paradigma che stiamo vivendo. La nuova rivoluzione scientifica del nostro tempo infatti, è presente in tutti i campi, e attraverso questi filosofi vorremmo cercare di trovare quegli scorci, quelle luci, in grado di indirizzarci e di guidarci verso questo altrove che ci chiama a nuove prospettive e ad altri sguardi sulla realtà che ci abita e ci circonda.

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La svolta della modernità

“La nuova concezione del mondo: un dialogo fra fisica e filosofia” (secondo capitolo)

Siamo partiti dalle origini del pensiero antico per mostrare che in realtà la svolta del pensiero moderno, di cui siamo eredi, nasce proprio dal rinnovamento dei presupposti della filosofia greca. Questo è importante da capire perché significa che se vogliamo operare un cambiamento e tentare di ricollegare i vari ambiti del sapere umano, è necessario ritornare alla fonte del problema, cercando di rovesciare la struttura di fondo che in realtà accomuna gli antichi e i moderni.

Già a partire dal ‘500 però, accade qualcosa di inaspettato…

Giordano Bruno e la “nova filosofia”

Ecco allora che vi propongo un percorso attraverso quattro pensatori moderni della storia della filosofia che, nella loro evoluzione, ci hanno insegnato a contemplare la nostra realtà e il nostro universo in modo del tutto differente, talvolta anticipando alcune concezione che sarebbero apparse nella fisica sperimentale solamente alcuni decenni o secoli dopo.

Leggi tutto “La svolta della modernità”

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