In queste sconfinate periferie cosmiche

Nella quarta puntata del progetto Darsi Spazio, abbiamo affrontato un tema intrigante, quello del “dove siamo” all’interno del nostro vasto Universo.

Ed eccoci alla quarta tappa  del progetto Darsi Spazio, sempre in collaborazione con Gabriele Broglia ed Emanuele Giampà. Parliamo ormai spesso del cosmo e ci domandiamo – avendo ormai compreso che siamo in un ambiente in evoluzione e che le sorprese sono sempre dietro l’angolo – se siamo i soli ad abitarlo oppure quale sarà il suo destino ultimo (cose delle quali, tra l’altro, ci occuperemo con ogni probabilità nel nostro prossimo finale di stagione, le ultime due puntate che chiuderanno – speriamo “alla grande” – questa serie introduttiva, che ha finora riscosso un buon favore di pubblico).

Meno frequentemente, tuttavia, ci interroghiamo sulla nostra specifica posizione al suo interno. Su cosa, cioè, possiamo dire allargando virtualmente lo sguardo, come zoomando indietro dalla Terra allargandoci temerariamente nel cosmo, fino a scoprire pian piano le strutture più o meno estese intorno a noi.

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Attraversare un buco bianco?

L’avventura di Darsi Spazio prosegue approdando ad un tema suggestivo ed anche controverso, a metà tra scienza e fantascienza. Ma con evocative connessioni con la metafisica.

Terza tappa del progetto Darsi Spazio, sempre in collaborazione con Gabriele Broglia ed Emanuele Giampà. Dopo il resoconto spaziale della nostra partenza, dopo aver temerariamente assistito perfino alla danza cosmica di miliardi di stelle, questa volta – confortati da indici di ascolto e gradimento soddisfacenti – ci siamo buttati senza (troppa) paura su un argomento decisamente interessante, che solleva spesso molte curiosità.

Sto parlando dei buchi neri ma non solo, mi riferisco infatti anche alla loro controparte (ancora?) ipotetica dei buchi bianchi, di cui l’ottimo Carlo Rovelli ha fornito una descrizione semplice ed elegante nel suo recente volume edito da Adelphi, Buchi bianchi: dentro l’orizzonte, che avevo letto e brevemente recensito qualche mese fa.

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La danza intima del reale

Sempre più, nell’epoca presente, ci interroghiamo sul nostro rapporto con il cosmo. E’ probabilmente un segno dei tempi. Sempre meno accettiamo di vivere in modo non cosciente appiattiti a livello terra, senza chiederci cosa ci facciamo qui, come siamo legati al turbinoso avvolgersi degli astri e all’espandersi accelerato degli spazi siderali.

Di fatto, la nozione di universo che si espande – relativamente recente nella storia della cosmologia – ha sbalzato fuori l’umanità dagli scenari troppo consolidati che le giungevano acriticamente addosso dai secoli passati, per rinnovare le domande ultime, e potenzialmente per chiamare alla partecipazione attiva ad una avventura che probabilmente ancora non abbiamo disvelato, nei suoi caratteri più emozionanti.

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Buco nero M87: Katie batte Doc

La foto del buco nero in M87 ci mostra come la dimensione comunitaria della scienza seppellisce quell’immagine ormai desueta dello scienziato solitario retaggio di secoli passati ma che ancora resiste – come un cadavere – nell’immaginario collettivo che si porta dietro paure e angosce di una umanità in crisi, ma che è proiettata verso una unificazione ormai avviata.

Tutti l’abbiamo vista, la «foto astronomica del secolo», il buco nero centrale in Messier 87. Per la prima volta nella storia.

«Fotografato» si fa per dire: non c’è nessuna pellicola, nessun obiettivo, nessuna stampa, nessuna banda elettromagnetica nella regione ottica, che è il visibile dell’occhio umano. Eppure si palra di «foto». Dovremmo parlare meglio di «immagine» giacché di questo si tratta: una elaborazione di una montagna di dati, tutti presi nello stesso momento, da decine di radiotelescopi (non «telescopi» dunque!) sparsi per il mondo, e molto, molto ben coordinati fra loro. Una impresa titanica.

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Coscienza Cosmica

Avete la percezione che adesso siamo nel cosmo? chiede un po’ provocatoriamente un Marco Guzzi in ottima forma, nell’estratto che vi propongo e che proviene da un incontro del percorso Darsi Pace.

E il resto no, non ve lo anticipo: per non rovinarvi la visione.

Vi dirò solo che ci sono anche momenti di simpatico cabaret. Ma attenzione, non è semplice intrattenimento, appare piuttosto una trovata geniale – quasi un Koan buddista – per farci sbalzare fuori dagli strati arrotolati ed opachi dell’abitudine, farci davvero guardare  – almeno per un istante – con occhi cosmici.

Seriamente. Abbiamo la percezione che stiamo sfrecciando – ora – tra le stelle ad una velocità pazzesca, in rotazione in un ambiente vastissimo come la Galassia, che contiene centinaia di miliardi di stelle?

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Verso un cosmo raccontabile

Pubblichiamo la seconda parte del viaggio di riflessione tra i social media e una nuova idea della scienza (la prima è reperibile qui).  Come già scritto, il testo  prende le mosse da un intervento dello scrivente presso la sede di Frascati Poesia, tenuto in data 10 aprile 2018. 

L’uomo. Ecco il grande escluso dalle moderne teorie cosmologiche. Ecco il grande furto a cui urgentemente porre riparo: c’è da riconsegnare il cosmo all’uomo. Dare all’uomo – ad ogni uomo – un modello di universo comprensibile, pensabile, lavorabile. Raccontabile, anche nei social. E soprattutto, portatore di senso.

La partita è fondamentale: un cosmo non raccontabile è un cosmo in cui il disagio di non poter tracciare una storia diventa angoscia, timore del nulla, si veste di senso di impotenza, si colora di paura dell’ignoto. Come da piccoli, la voce del papà e della mamma scavavano un percorso rassicurante nel buio della notte, confortando il nostro cuore impaurito, così l’umanità è sempre “piccola” – ovvero sempre in crescita – e desiderosa di ricavare un sentiero nel cosmo: per vedere il buio non più come oscurità, ma come un silenzio trattenuto, delicatamente trapuntato di stelle. Come scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel volume Il Tao della Liberazione,

“abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”

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Facebook e la nuova scienza

Decliniamo in due puntate un viaggio di riflessione tra i social media e una nuova idea della scienza. Il testo che leggerete prende le mosse da un intervento dello scrivente presso la sede di Frascati Poesia, tenuto in data 10 aprile 2018. 

In questa prima parte, muoviamo da una semplice evidenza, che informa peraltro tutta la trattazione, la percorre anzi come sottotraccia: siamo in un momento particolare, nella storia del mondo. Momento che si configura davvero come un cambiamento d’epoca, come dice anche papa Francesco: “si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”, ci avverte, facendo peraltro propria la percezione diffusa in molti acuti osservatori, a qualsiasi fede e professione culturale facciano riferimento.

Se possibile, l’attualità di questo tema è diventata ancor più stringente, per lo scandalo relativo al caso Cambridge Analytica e all’uso (diciamo) “spensierato” di dati personali al fine di manipolare ed orientare le nostre scelte, non soltanto in ambito merceologico, ma anche in occasione di eventi importanti come le elezioni politiche. Questo ha esposto un vulnus, una ferita che riguarda noi tutti, perché noi tutti ci sentiamo in una certa misura invasi e offesi. Una ferita dalla quale dobbiamo e vogliamo imparare, lentamente, a guarire. Anche attraverso un nuovo e diverso rapporto proprio con Facebook, e con i social media in generale.

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Dove va AltraScienza?

Siamo ormai alla fine di un anno solare, ed è quasi normale azzardare consuntivi, stendere bilanci, tentare insomma un poco il punto della situazione. Così vogliamo fare anche noi, in questo progetto AltraScienza. Farlo, ed anche ricomprendere insieme perché siamo qui e perché crediamo in questo cammino.

Quale sia poi questo cammino, per chi si imbattesse in questo luogo virtuale per la prima volta, è presto detto. Si tratta di lavorare (e lavorarci) in una idea di scienza non riduzionistica, ma intrinsecamente amica di ogni ramo dell’indagine umana nell’universo.

Letteratura, poesia, spiritualità, arte, sono cammini che hanno bisogno di una coniugazione frequente e fruttuosa con l’avventura scientifica, e noi pensiamo sia vero anche il contrario, in un perfetto ed armonico bilanciamento. Un bilanciamento in cui, come ogni unione veramente feconda e duratura, ognuna della parti sia invitata a coniugarsi essendo veramente e compiutamente sè stessa: trovare l’apertura all’altro (e all’Altro) non in una diversione da sé, non come ennesima distrazione o inopinata complicazione, ma proprio come pieno compimento di sé.

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L’universo poetico

Vi sono parole intorno alle quali si possono dire cose sempre diverse, atteggiamenti e attitudini fondamentali, opzioni essenziali dello spettro delle possibilità umane. Parole cardine, intorno alle quali si possono far risplendere colori in maniera continuamente cangiante. Le parole sono importanti, ci avvertiva un saggio Nanni Moretti già diversi anni fa. Ne scelgo una, apparentemente lontana dal tema che ho scelto, che invece si dimostrerà — spero — essere la via più diretta per entrare davvero in argomento.

Prendiamo la parola umiltà. La si può approcciare in innumerevoli modi. Uno di questi, la cui evidenza mi colpisce continuamente, è che oggi, lo studio dell’uomo e insieme del cosmo, suggerisce proprio un atteggiamento di umiltà, derivante essenzialmente dal riconoscimento — forse mai stato così chiaro — di quante cose non sappiamo.

Quanta parte ignota nella conoscenza del cosmo!

Mai il socratico so di non sapere, a pensarci bene, è stato così manifesto, solo che lo si voglia guardare. Bisogna però, appunto, saperlo guardare. Vedere il quadro generale. Ad esempio, davanti al mare di notizie astronomiche che ci arrivano continuamente dai vari media (cosa certamente ottima), di fronte a scoperte così eclatanti come quella recentissima del sistema Trappist-1 con sette pianeti forse abitabili, chi pensa mai al fatto che in realtà più del 95% di tutto l’Universo è composto — secondo le teorie più accreditate — da qualcosa di cui non conosciamo la natura? Energia oscura e materia oscura insieme, nel quadro teorico attuale, rendono conto di quasi tutto l’Universo. Tutto, praticamente tutto. Tranne un misero 4,9%. Che poi è quello che compone la materia che conosciamo, ed è praticamente tutto ciò che sappiamo (in realtà ne sappiamo ancora meno, perché anche di quel 4.9% le cose ancora da capire non sono affatto poche…).

Comprendete cosa stiamo scoprendo? Consideriamo che quel piccolissimo 4,9% “visibile” è ciò che costituisce la Terra, il Sole, le stelle, i pianeti vicini e lontani, il nostro corpo, l’acqua che beviamo, il cibo che mangiamo… Quel che, nella vita ordinaria, ci sembra tutto, ed è appena, invece una piccola piccola parte, di un qualcosa di immensamente più esteso, ed invisibile agli occhi. La scienza ci viene a dire che la gran parte di quello che esiste, è qualcosa della quale non possiamo avere esperienza diretta: è in un certo senso fuori dal nostro mondo.

Credo allora che il primo messaggio da trattenere sia questo: quasi tutto quello che esiste, non si vede.

L’armonia nascosta è più potente dell’armonia manifesta, diceva Eraclito, già 2500 anni fa. E sembra proprio che i dati della ricerca cosmologica più recente, non facciano altro che confermare, anche dal punto di vista strettamente scientifico, l’asserzione del noto filosofo.

Cosa possiamo dire oggi, dal punto di vista astronomico, di questo quasi tuttoche è comunque inaccessibile ai nostri sensi? Cosa sappiamo davvero, di energia oscura e materia oscura?

Ebbene, l’energia oscura è un’ipotetica forma di energia non direttamente rilevabile, diffusa omogeneamente nello spazio. Si stima appunto che rappresenti circa il 68% della massa energia dell’universo (parliamo di “massa energia” perché sappiamo che massa ed energia sono in fondo completamente equivalenti, come ci ha insegnato Einstein). L’energia oscura è anche il modo più diffuso fra i cosmologi per spiegare l’espansione accelerata dell’universo, ovvero il fatto che i corpi celesti si allontanano l’uno dall’altro con velocità crescente (grossa sorpresa anche questa, scoperta solo in tempi recenti). Essa costituisce pertanto un’importante componente del cosiddetto “modello standard” della cosmologia basato sul Big Bang. A sua volta il Big Bang è la “storia” scientificamente più accreditata di formazione dell’universo di cui al momento disponiamo. Quella accettata dalla quasi totalità dei ricercatori, come ipotesi più realistica di formazione dell’universo, e quella che spiega meglio di ogni altra, i dati di cui disponiamo. Il nostro universo, secondo questo quadro, è nato circa 13,7 miliardi di anni fa, da un “grande scoppio”, e da allora è in continua fase di espansione.

Questo per quanto riguarda appunto l’energia oscura, così intimamente connessa alle dinamiche di inesausta espansione del nostro universo.

Con materia oscura si definisce invece un’ipotetica componente di materia che non è direttamente osservabile, in quanto, diversamente dalla materia conosciuta, non emette luce e si manifesta unicamente attraverso i suoi effetti gravitazionali. In base a diverse indagini sperimentali e ad una serie di evidenze indirette, si ritiene che la materia oscura costituisca una grande parte, quasi il 27%, della massa energia presente in totale nell’universo.

Ovvero, tirando le somme in maniera un po’ spiccia, ma sostanzialmente corretta: tra energia oscura e materia oscura, se il modello di universo tiene (e molti indizi ci dicono che tiene…), vuol dire una cosa molto importante: vuol dire che è quasi tutto invisibile, per noi.

Qui uno potrebbe pensare, va bene, lo studio del cosmo è peculiare e complicato. D’accordo. Ma che dire dell’uomo? Dell’uomo ormai sappiamo tutto. E invece non è affatto così. E la cosa curiosa è che anche qui andiamo a sbattere in percentuali molto simili, anche se meno rigorosamente definite. Leggo infatti dai trattati di psicologia come circa il 95% della nostra mente sia costituita dall’inconscio. Ovvero quel luogo dove avvengono processi psichici inaccessibili al cosiddetto pensiero cosciente, che esorbitano, in altre parole, dal pensiero razionale. Dunque anche qui la nostra razionalità si deve fermare, si deve arrendere, davanti ad una sostanziale ignoranza. Possiamo certo scandagliare l’inconscio, possiamo speculare sui suoi effetti, ma è un po’ come lanciare una sonda nello spazio: portiamo a casa dei dati preziosi, ma intorno rimane comunque il mistero più profondo. Siamo davanti all’evidenza di una zona non investigabile direttamente, ma che ha effetti decisivi sulla parte conosciuta. E vale, come vedete, tanto per lo “spazio al di fuori” (l’universo) quanto per lo “spazio al di dentro” (la psiche).

Questa straordinaria concordanza si è maturata solo in epoca recentissima, ed è certo significativa dei “tempi estremi” che stiamo vivendo.

Non so voi, ma personalmente questo alone così esteso di ‘non conosciuto’ non mi inquieta per niente, anzi lo trovo quasi rassicurante. Prendere atto di questo stato di cose, lungi dall’essere scoraggiante, implica invece che io non possa mai dire, né come uomo né come ricercatore, la terribile frase è tutto qui? Implica, dunque, la consapevolezza di avere davanti un cammino, un cammino che ci potrà riservare ancora molte sorprese. Un cammino che, io credo, potrà davvero svolgersi soltanto rinnovando la nostra mente, per adeguarci a comprendere ciò che ancora ci è oscuro.

Ed è qui che vorrei innestare una personale considerazione, che riguarda specificamente il modo di guardare a questo nostro limite, a questo nostro gigantesco non sapere. A mio avviso infatti un universo così ampiamentemisterioso è intrinsecamente un universo poetico. E’ cioè un universo al quale possiamo approcciarci in maniera soddisfacente, a livello umano, solo se non ci limitiamo ai parametri conoscitivi della scienza, ma ci apriamo ad un ambito più vasto. La scienza, lo abbiamo visto, ci circoscrive a quel piccolo 4.9%. Ed è una informazione straordinaria, precisa, limpida come non mai. D’accordo. Ma come riempire il resto? Di cosa riempirlo?

Non riempirlo, non è una scelta. Non è una opzione. Perché comunque la natura aborre il vuoto, e dunque verrebbe in ogni caso riempito. Da chiacchiere, pensieri, preoccupazioni, se non altro (come spesso avviene). Il nostro cielo è sempre composto, completo. Allora è necessario forse un atto di volontà, di focalizzazione. Decidiamo noi come riempire il cielo, creiamo il cielo da riempire. La scienza si fa da parte, ci lascia campo. Ed è un universo da riempire innanzitutto di senso, e dunque di poesia. La poesia è infatti, potremmo dire, il lavoro di dare un senso ultimo e corroborante all’insieme delle cose, di ricercarlo in modalità intuitiva, non razionalistica. E questo universo chiama ad un atto poetico, perché vuole farsi conoscere più intimamente che soltanto con l’indagine razionale.

E nello stesso tempo, la poesia stessa chiama l’universo, lo vuole a sé. Si stanno cercando, vedete. E’ un rapporto di desiderio, di mutuo desiderio.

Se non ci credete, ascoltate cosa dice Ungaretti, in una della sue “Poesie Sparse”

I Giorni e le Notti suonano / in questi miei nervi d’arpa // Vivo / di questa gioia malata / d’universo / e soffro / per non saperla accendere / nelle mie parole

La gioia del poeta è malata di universo perché vuole la totalità, non si accontenta di niente di meno del tutto. L’universo. Viene a riempire il vuoto che lascia la scienza, e non certo usurpando o calpestando il suo lavoro. Piuttosto, viene a saldarsi alla costruzione scientifica per restituire un sapere più globale all’uomo. Non si tratta infatti di andare contro la scienza, si tratta di ritornare ad un’idea di uomo più completa, che integri il sapere scientifico all’interno della più vasta conoscenza umana.

Ecco allora cos’è l’universo poetico: è lo spazio di conoscenza, in prospettiva, di un uomo che torna completo. Che integra dentro di sé i diversi saperi, ben sapendo che in ultima analisi non sono diversi affatto.

Cosciente della infinita sproporzione tra me ed Ungaretti (poeta che ammiro visceralmente) così provo anche io a dire nella poesia “Multiversi”, della raccolta “In pieno volo”:

Guardo intanto / la poesia più nostra // La modulazione flebile / di onde elastiche tese / rese trasparenti dal sole / e l’ombra. // Che si succedono intime / negli immensi spazi interni. // Dove aspetti me / è dove io ti aspetto / a balbettare l’idea pazza di compimento / di là di ogni ombra, ogni male. // Così le campane suonano — adesso — che impudica inarchi / la pazienza non detta / portata a pelle come diadema. / L’unico ornamento del resto // più bello ed essenziale / di te, nuda. // L’unico profumo più soave / del tuo stesso odore. // Ed ogni tuo piegarsi / è mostrare, invitare: / creare tempo e spazio. // Perciò lo vedo / Tra chi non si mischia di poesia e chi si imbratta invece / — camminando a filo tra ridicolo e sublime — / piovono grappoli di orizzonti, miriadi di universi. // Come tra un “no” e un “così sia” / tale è distanza / che l’infinito stesso è poca cosa.

Perché so che sono appena all’inizio del viaggio di scoperta (del cosmo e di me stesso), ogni atteggiamento più o meno arrogante sarebbe decisamente fuori luogo. Come sarebbe fuori luogo ogni tentazione di razionalismo che limitasse il reale al razionalmente conoscibile (“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie — oracolo del Signore”, Is. 55,8)Molto meglio sarebbe arrendersi, ammettere che vi sono realtà che superano infinitamente la mia comprensione.

E la attitudine più giusta tornerebbe dunque ad essere l’umiltà, la coscienza tenera e liberante delle proprie capacità e dei propri limiti.

Testo del mio intervento su invito presso l’associazione Frascati Poesia, svolto in data 6 marzo 2017.

 

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