Alcune riflessioni sul panpsichismo

L’articolo Panpsichismo: la teoria che può rivoluzionare la filosofia della mente1 di Philip Goff2 esplora in profondità una delle proposte più affascinanti e radicali nel campo della filosofia della mente: il panpsichismo. Questa teoria si pone come una via di mezzo innovativa rispetto alle tradizionali posizioni materialiste e dualiste, offrendo una chiave di lettura alternativa per affrontare il problema della coscienza.

Il materialismo, che ha dominato gran parte del dibattito filosofico e scientifico, sostiene che tutto ciò che esiste è essenzialmente riducibile a processi fisici e chimici. Tuttavia, questo approccio fatica a spiegare in modo soddisfacente il fenomeno dell’esperienza soggettiva, il “come” e il “perché” del sentire e del percepire. Il dualismo, d’altra parte, propone una separazione netta tra mente e corpo, postulando l’esistenza di una realtà non materiale che si occupa della coscienza. Ma anche questa visione incontra difficoltà, soprattutto quando si cerca di integrare in maniera coerente le interazioni tra la dimensione mentale e quella fisica.
Il panpsichismo afferma che la coscienza non sarebbe un attributo esclusivo degli esseri umani o degli organismi viventi, ma una proprietà intrinseca della materia stessa. In questo quadro, ogni componente dell’universo, dai quark alle galassie, possiede una forma rudimentale di esperienza, un proto-sentire. Ciò significa che la coscienza, lungi dall’essere un prodotto emergente di processi cerebrali complessi, sarebbe una caratteristica fondamentale e onnipervasiva della realtà.

L’articolo riporta le radici storiche di questo pensiero, evidenziando come il panpsichismo non sia una teoria nuova, ma abbia avuto esponenti illustri nel corso della storia della filosofia. Pensatori come Bertrand Russell e Arthur Eddington hanno lasciato intravedere l’idea che la fisica, pur descrivendo in modo preciso le strutture e i processi del mondo materiale, non riesca a cogliere l’essenza intrinseca delle cose. Questa “doppia faccia” della realtà, quella oggettiva e quella soggettiva, potrebbe essere superata se si ammette che la coscienza sia una proprietà fondamentale della materia.

Un esempio contemporaneo di sostenitore del panpsichismo (posizione alla quale sono vicini sia il Teilhard de Chardin3 che Federico Faggin4) è il filosofo Philip Goff, il quale ha approfondito questa teoria nel suo libro L’errore di Galileo. Goff racconta il suo percorso intellettuale, passando da una visione inizialmente materialista a quella panpsichista, spinto dalla consapevolezza che il materialismo tradizionale non riesce a spiegare adeguatamente il fenomeno della coscienza. Secondo lui, riconoscere una forma di esperienza anche nelle entità più semplici dell’universo potrebbe rappresentare la chiave per una nuova comprensione della realtà, capace di colmare il divario tra mente e materia.

Il panpsichismo, pur offrendo una visione affascinante e potenzialmente rivoluzionaria, non è esente da critiche e questioni irrisolte. Una delle principali sfide riguarda il cosiddetto “problema della combinazione”: se ogni particella possiede una forma minima di coscienza, come si fa a spiegare che, in organismi complessi come quello umano, queste esperienze basilari si integrino per dare origine a una coscienza unificata e complessa? Inoltre, l’idea che anche gli oggetti inanimati possano avere una forma di esperienza solleva interrogativi sulla natura stessa della vita e dell’intelligenza, portandoci a riconsiderare i confini tradizionali tra animato e inanimato.
L’articolo suggerisce che, nonostante le difficoltà interpretative e le domande ancora aperte, il panpsichismo rappresenta una prospettiva in grado di rivoluzionare la filosofia della mente. Abbracciando l’idea che la coscienza sia una caratteristica fondamentale dell’universo, questa teoria spinge a ripensare le relazioni tra il mondo fisico e quello esperienziale, offrendo una via per superare i limiti imposti dalle visioni materialiste e dualiste. Se confermata, una tale prospettiva potrebbe avere implicazioni profonde non solo per la filosofia, ma anche per le scienze cognitive e persino per la nostra concezione etica del mondo, suggerendo che la presenza di una forma di esperienza sia un attributo universale.

Ad un certo punto del testo, Goff afferma che quello che ha reso la fisica così efficace nel rispondere alle nostre domande è il fatto che la fisica ci dice come le cose si relazionano tra di loro e quindi ci permette di fare previsioni accurate, ma non ci dice nulla (né è il suo compito) sulla natura intrinseca delle cose stesse.
Noi non possiamo conoscere la natura intrinseca delle cose in generale, visto che abbiamo una percezione esterna ad esse. Questo è vero con una sola eccezione, ovvero il nostro corpo: ognuno di noi può verificare empiricamente che la natura intrinseca di noi (come oggetti fisici) è la nostra coscienza.
In realtà nell’articolo Goff dice una cosa leggermente diversa: afferma che la natura intrinseca del nostro cervello (inteso come oggetto materiale) è la nostra coscienza, ma non mi sento d’accordo ad attribuire al nostro cervello la proprietà di essere luogo esclusivo della nostra coscienza.

Dove si trova la coscienza?

Goff afferma che la natura intrinseca del nostro cervello (inteso come oggetto materiale) è la nostra coscienza. Cercando di fare attenzione a come io ho consapevolezza di me stesso, mi pare sia più preciso dire che la nostra coscienza è il centro del nostro corpo…
Se in un mondo fantascientifico riuscissimo realmente a separare completamente il cervello dal nostro corpo, isolandolo da esso pur mantenendolo in vita, immagino che questo cervello avrebbe probabilmente una qualche forma di esperienza cosciente, ma sarebbe estremamente più povera di quella che possiamo sperimentare come esseri dotati di un corpo.
Facciamo questo esperimento mentale: quando una persona diventa cieca (perché perde l’uso degli occhi), perde certamente una parte della sua esperienza cosciente (ci sarebbe un “vuoto” dove prima c’era l’esperienza visiva) ma le ricerche ci dicono che mano a mano che impara a far un miglior uso degli altri sensi (udito, tatto, olfatto) le aree della corteccia visiva non più utilizzate vengono perlopiù cooptate rispondendo ad altri stimoli, e la sua esperienza cosciente si arricchisce nuovamente, in maniera diversa da quella di prima5. Questo processo di ri-ampliamento dell’esperienza cosciente va di pari passo con la formazione di nuovi pathway neuronali all’interno del cervello. E’ stato provato che i ciechi usano comunque la corteccia visiva per farsi un’immagine lo spazio attorno a loro, nonostante non la usino per la vista vera e propria. Le informazioni che non provengono più dagli occhi vengono derivate dalla rielaborazione dei segnali provenienti dagli altri sensi.

Quindi, per la perdita di uno dei sensi, possiamo immaginare che l’esperienza possa essere comunque ricca, ma se perdessimo tutti i sensi? Sarebbe come essere immersi in una camera di deprivazione sensoriale.
Anzi, peggio, perché in una camera di deprivazione sensoriale il cervello riceve comunque i segnali provenienti dall’interno del corpo. Se pensassimo a un cervello isolato, non riceverebbe nemmeno quelli. Dopo poco tempo che una persona si trova in una camera di deprivazione sensoriale, essa inizia a vivere allucinazioni sonore e visive. Non so cosa succede se una persona rimane molto tempo, ma immagino che la mente e il senso di sé in qualche maniera si sfaldino6.
Quindi non mi sembra appropriato dire che la coscienza si trova nel cervello.

Chiedendo infine a ChatGpt se la coscienza si trova nel cervello o nel corpo ottengo questa risposta, che riassume le ricerche sul luogo della coscienza:

La coscienza umana è un fenomeno complesso che coinvolge sia il cervello che il corpo. Tradizionalmente, la coscienza è stata attribuita principalmente al cervello, in particolare alla corteccia cerebrale e a strutture come il talamo e il sistema reticolare attivatore, che regolano lo stato di veglia e l’attenzione. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che la coscienza non sia unicamente confinata al cervello, ma emergerebbe dall’interazione tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo.

Teorie principali sulla coscienza:

1. Coscienza come prodotto del cervello
– Secondo questa prospettiva neuroscientifica classica, la coscienza è il risultato dell’attività neuronale, in particolare delle connessioni tra diverse aree del cervello.
– Teorie come quella dell’integrazione dell’informazione (IIT di Giulio Tononi) e quella del Global Workspace (Bernard Baars) vedono la coscienza come un sistema distribuito che coordina ed elabora informazioni a livello cerebrale.
2. Il ruolo del corpo nella coscienza
– Teorie più recenti, come quella di Antonio Damasio, suggeriscono che il corpo gioca un ruolo cruciale nella coscienza attraverso le emozioni e la percezione interocettiva (cioè la consapevolezza del proprio stato corporeo).
– Il concetto di “cognizione incarnata” propone che la coscienza emerga dall’interazione tra cervello, corpo e ambiente.
3. La teoria della mente estesa
– Alcuni filosofi e scienziati cognitivi, come Andy Clark e David Chalmers, suggeriscono che la coscienza potrebbe non essere solo nel cervello, ma anche distribuita tra corpo e ambiente (ad esempio, l’uso di strumenti cognitivi esterni come la scrittura o la tecnologia).

Conclusione
Anche se il cervello è il principale “processore” della coscienza, il corpo e le sue sensazioni influenzano profondamente la nostra esperienza soggettiva. Quindi, la coscienza non è solo nel cervello, ma è il risultato di un sistema dinamico che coinvolge tutto l’organismo.


Forse si può dire che la coscienza è collocata funzionalmente principalmente nel cervello, ma in secondo ordine anche nel corpo, e probabilmente anche nell’ambiente esterno.
Esistono delle ricerche che dimostrano come l’uso abituale di un attrezzo (ad esempio un martello) fa in modo che anche l’attrezzo sia percepito (e trattato a livello sensomotorio) come una parte del corpo7. Quindi anche la percezione di quello che è il proprio corpo e di quello che è fuori non è rigida, ma è fluida.

Cosa sa un martello?

Una questione che mi sembra importante porsi è questa: se io uso un martello, e la mia percezione soggettiva è che il martello sia una estensione del mio corpo (quindi la mia coscienza “include” nel senso di sé anche la materia del martello), si viene a creare un qualche collegamento di coscienza tra il mio io e il martello? Gli atomi del martello “sanno” di essere parti di me, cambia qualcosa per loro?
La stessa domanda può essere posta per parti del nostro corpo: i mei capelli o le mie unghie “sanno” a un qualche livello di essere parti di me?
Probabilmente no… la struttura molecolare degli atomi del martello o delle unghie è ben diversa da quella del cervello. Tornando all’articolo, Goff scrive:

In secondo luogo, fatto forse ancora più decisivo, i panpsichisti non credono che una coscienza come la nostra sia in ogni dove. I pensieri e le emozioni complesse provati dagli esseri umani sono il risultato di milioni di anni di evoluzione per selezione naturale, ed è chiaro che le singole particelle non ne sono dotate. Se pure gli elettroni avessero una forma di esperienza, questa sarebbe inimmaginabilmente semplice.

Quindi, secondo i panpsichisti, il martello, o le mie unghie non possono “sapere” neanche lontanamente quanto “so” io.
Però è un bel rovesciamento di prospettiva pensare che il legame psichico che c’è tra me e il martello (in quanto lo percepisco come parte di me) si concretizzi nel legame fisico che c’è tra me e il martello. Cioè, la minuscola parte di coscienza degli atomi del martello “sa” a un livello infimo di essere parte di me, e questo loro sapere molto basilare si manifesta proprio nella fisica, ovvero nel fatto che il martello che tengo in mano può essere mosso secondo la mia volontà. Il legame è ovviamente fisico (gli atomi della mia mano possono imprimere moto a quelli del martello), ma possiamo speculare sull’idea che questo sia un epifenomeno del fatto che la consapevolezza degli atomi del martello è di essere solidali con gli atomi della mia mano che lo stringe.
Non so se questa prospettiva è falsificabile, ma può essere un passetto nella direzione di un rapporto più genuino con la realtà, anche (forse), nella creazione di un rapporto con la realtà tale da eludere le leggi fisiche conosciute, che proverebbe la realtà del rapporto psichico.

Una questione di forma mentis


Ho comunque l’impressione che la percezione della coscienza come situata nel cervello oppure nel corpo, oppure ancora più estesa anche al di fuori del corpo fisico dipenda dalla forma mentis del soggetto che si pone la questione.


Un intellettuale, che vive molto nei suoi pensieri, la percepirà nel cervello, un atleta che allenandosi continuamente è molto attento al suo corpo, la percepirà molto anche lì. Un mistico/ricercatore, che ha avuto esperienze di coscienza espansa (a me è capitato), la percepirà anche al di fuori del corpo. Come dice Marco Guzzi, (riprendendo gli insegnamenti buddhisti, mi pare), la coscienza tende ad attaccarsi ai contenuti, identificandosi con essi. Questi attaccamenti sono la causa della sofferenza, e imparare a staccare la propria coscienza, a disidentifcarsi, è la via della liberazione.
Meditando bene questo concetto, cioè che la nostra coscienza si identifica con quello su cui tendiamo ad appoggiare la nostra attenzione, non è così sorprendente notare che culture diverse dalla nostra, informati da stati di coscienza diversi, da modi diversi di collegarsi alla realtà, abbiano sviluppato teorie scientifiche diverse, direi complementari alla nostra. I saggi taoisti hanno sviluppato la teoria del qi (dei soffi), che vuole fornire una visione sistematica del modo in cui l’energia fluisce nel cosmo, e dentro e fuori dal corpo umano8.
Questa teoria (come quelle equivalenti nelle altre culture) rendono conto della percezione “mistica” dell’unità di tutte le cose che si ha in determinati stati di coscienza, quando il Sé si è liberato dall’ego. Una frase che riassume l’insegnamento delle Upanishad è Tat tvam asi (Quello tu sei). Quando la coscienza convenzionale si rompe, e attraverso di essa filtra la luce dell’Assoluto, allora percepiamo come ogni cosa sia connessa a tutte le altre, percepiamo l’unità del Tutto e percepiamo la beatitudine.
Già il fatto che le tradizioni sapienziali mondiali abbiano, in tempi e modi diversi, sviluppato visioni simili riguardo al nostro rapporto con l’universo, potrebbe essere comunque una prova per la persona ragionevole del fatto che la direzione verso la quale si sta dirigendo la scienza è questa. Essedo la verità unica, come la realtà. Quindi, godiamoci il viaggio.

  1. https://www.indiscreto.org/panpsichismo-la-teoria-che-puo-rivoluzionare-la-filosofia-della-mente/ ↩︎
  2. Philip Goff è un filosofo britannico, professore alla Durham University, la cui ricerca si svolge nell’ambito della filosofia della mente e della coscienza. Nel 2019 ha pubblicato L’errore di Galileo. Fondamenti per una nuova scienza della coscienza ↩︎
  3. F. Mantovani, Complessità-coscienza e panpsichismo (2012): https://www.biosferanoosfera.it/uploads/files/3aa721cb4bbf22b65adb7a329d989a941045e34f.pdf ↩︎
  4. Faggin discute del panpsichismo nel libro Irriducibile. La coscienza, la vita i computer e la nostra cultura. Mondadori (2022) ↩︎
  5. https://iapb.it/ciechi-con-sensi-potenziati/ ↩︎
  6. https://lamenteemeravigliosa.it/deprivazione-sensoriale-gli-spaventosi-effetti ↩︎
  7. https://www.lescienze.it/news/2009/06/24/news/strumenti_spazzolini_e_mappe_corporee-574501/ ↩︎
  8. una breve introduzione alla cosmologia cinese è presente in C. Larre, F. Berera, Filosofia della medicina tradizionale cinese; Jaca Books 1997 ↩︎

IA e disumanizzazione accelerata

Come l’essere umano ha già perso il controllo dell’intelligenza artificiale

Negli ultimi anni c’è stata una vera e propria esplosione di sistemi di intelligenza artificiale (IA, molti preferiscono usare “sistemi intelligenti”, io preferirei qualcosa del tipo “sistemi algoritmo-automatici”). Così è stato anche in ambito militare dove solitamente (purtroppo) avvengono le innovazioni principali che poi vengono dispiegate anche in ambiti civili (ad esempio: l’energia atomica, la rete internet, il GPS, ecc…).

Immagine dell’autore, creata con GIMP

La tecnica in genere ha portato anche in ambito militare una disumanizzazione dei conflitti. Non è che prima dell’arrivo della polvere da sparo i conflitti fossero “umani”, ma per lo meno c’era un contatto di corpi, uno scambio di sguardi, si sentiva l’odore di sangue e morte, un clangore metallico di spade (avete presente a quanti dà fastidio lo sfregare delle posate?), ecc… Con l’evoluzione tecnologica si è passati ad un distacco sempre più ampio. Si ammazza da lontano: dentro enormi bombardieri, lanciando missili davanti a schermi a centinaia di chilometri di distanza dall’obiettivo da colpire o guidando a distanza droni. Nell’ultimo secolo, si è perso un contatto fisico con il nemico, non essere più sul campo vuol dire non essere coinvolto emotivamente, non c’è possibilità che emerga una qualsiasi forma di empatia.

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Un approccio ragionevole

Cosa ci può dire un libro di alcuni decenni fa, sul modo corretto (e bello) di fare scienza, oggi?

L’impresa scientifica – l’abbiamo sottolineato molte volte, in queste pagine – non ha per nulla bisogno (contrariamente a quanto comunemente si pensa) di un asettico distacco dell’esaminatore rispetto al materiale di laboratorio, mentre si giova moltissimo di un approccio inverso, dove anche il sentimento viene tenuto in debita considerazione. Si tratta però di capire bene in che modo tenerne conto.

La gioia dei tecnici NASA all’arrivo della sonda New Horizons su Plutone, al suo “risveglio” avvenuto con successo, dopo anni di silenzioso viaggio…

Urge contestualizzare. In questi mesi, accogliendo un suggerimento di lavoro proveniente dal movimento di Comunione e Liberazione, ho ripreso dall’inizio il testo di don Luigi Giussani, forse il suo più celebre: Il Senso Religioso. Questo costituisce il primo dei tre volumi in cui si articola la proposta del suo perCorso (gli altri sono rispettivamente All’origine della Pretesa Cristiana e Perché la Chiesa). Come è stato notato in altra sede, questo primo è un volume che parla pochissimo di metafisica o teologia, mentre si sofferma molto della modalità corretta del conoscere, considerata a ragione una premessa essenziale a tutto il resto. Riguardo poi il mio Giussani, con grande piacere (e con una innegabile senso di rassicurazione: ero finito nel posto giusto), mi accorsi già molti anni fa che i primi due volumi del suo perCorso sono presenti nella bibliografia consigliata per il triennio di Darsi Pace. Tutto torna, insomma.

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Il rapporto tra l’uomo e la macchina.

Guzzi, Faggin, Davide Sabatino e i Gruppi Darsi Pace. Con un invito, per domenica 29 ottobre, a Roma (o in streaming).

Il rapporto tra l’uomo e la macchina. È questa, a mio modo di vedere, una delle sfide decisive del nostro tempo perché ci costringe ad interrogarci su chi sia l’uomo, e se l’uomo si risolva in un meccanicismo deterministico equiparabile alle regole che governano la macchina.

In brevissimo – e rimando per ogni spunto personale al bellissimo saggio di Davide Sabatino all’interno dell’opera collettanea “La politica di una nuova umanità” – può dirsi che al giorno d’oggi ogni interrogativo sulla “natura” umana sia fortemente contaminato da una filosofia trans-umanista o post-umanista che promettendo un benessere maggiore ed una felicità incomparabile, tenta di scomporre l’uomo ad un insieme di dati, oppure ad un insieme di ingranaggi tecnici che possono essere fusi con le potenzialità dello sviluppo tecnologico, con la promessa prometeica di farci finalmente evadere dal nostro carcere interiore, dal nostro stato di minorità, ed elevarci a potenzialità neanche immaginabili.

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La vita vuole vivere

Alcune considerazioni a margine del dialogo tra Marco Guzzi e Federico Faggin

“La Vita vuole vivere” (come dimostra questo fiore sbocciato sul pavimento del mio terrazzo).

Questo postulato è alla base della teoria darwiniana.  Ma perché la vita vuole vivere? Vivere non è semplice, non è privo di dolore e fatica. Marco Guzzi ci ha detto, in uno degli ultimi incontri a cui ho partecipato, che Buddha sosteneva che stare in un corpo è irritante, è in pratica un fastidio continuo, c’è sempre, in ogni istante, qualcosa che ci infastidisce, e questo quando le cose vanno bene. Allora perché la vita vuole vivere? Lo diamo per scontato ma non lo è affatto.

Il postulato che sta alla base della teoria di Faggin è invece che la Coscienza (Uno, Spiritus, Aνεμος…) vuole essere sempre più cosciente, cioè vuole conoscersi sempre di più.

Ciò spiegherebbe perché la Vita vuole vivere, a tutti i costi. Per conoscere bisogna essere vivi, conoscere non può prescindere dal vivere, anche se ciò implica fatica e dolore.

Certo ci si può fare la stessa domanda: perché la Coscienza vuole diventare sempre più cosciente?

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Oltre il modello algoritmico

Nell’imminenza dell’incontro tra Marco Guzzi e Federico Faggin a Verona, sabato 20 maggio, una proposta di accostamento tra alcuni estratti dal libro “Irriducibile” e la Carta della Nuova Umanità

La Carta della Nuova Umanità è una iniziativa promossa da Darsi Pace e dal movimento L’Indispensabile, una proposta per raccoglierci intorno a pochi punti molto chiari. Una cordiale possibilità di ripartenza, in un clima innegabilmente confuso.

In una intervista di alcune settimane fa ho avuto modo di accennare a come la avverto io in quanto astrofisico. In questa sede vorrei piuttosto andare su una parte molto specifica del testo. Vi è infatti un passaggio che, a mio avviso, vale sottolineare specificamente per AltraScienza:

E ci rivolgiamo apertamente e cordialmente a tutte quelle persone, credenti o non credenti, cristiane o buddhiste, islamiche, ebree, hindu, o agnostiche o solo in ricerca, le quali comunque avvertano i pericoli e le distorsioni della visione antropologica riduzionistica, algoritmica, materialistica, scientistica, consumistica, e alla fine nichilistica, e bellica, che questo mondo al collasso vorrebbe imporci.

La Carta è un documento volutamente sintetico, per cui ogni passaggio è come se racchiudesse un tema, od anche una serie di temi, in modo compresso: chiama non tanto ad una fruizione passiva, ma alla necessità di un lavoro personale di interpretazione e di espansione. Anche per questo, mi appare come uno strumento formativo, non appena informativo.

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Meglio un uovo oggi che una gallina domani

In un sistema di mondo sempre più improntato alla velocità e quindi all’avventatezza, l’esperienza ci dovrebbe insegnare nuovamente il valore della prudenza.

Pare che ci siamo evoluti in ambienti altamente pericolosi. Abbiamo trascorso la maggior parte del nostro tempo evolutivo ad essere una preda e a dover reagire in modo fulmineo ad ogni segno sospetto.

Così il nostro modo di percepire il mondo, le nostre euristiche cognitive sono stati selezionati avendo come obiettivo quello di evitare di essere mangiati. Un gran bell’obiettivo!

Oggi noi viviamo in condizioni molto diverse da quelle che ci hanno accompagnato per 300.000 anni di storia evolutiva. Per noi il nostro essere potenzialmente preda per un altro animale è piuttosto remoto.

Molto più probabile è che siamo noi il predatore. Sfruttiamo le risorse naturali con una avidità da Guiness dei primati. Dall’estrazione dei minerali e dei combustibili fossili alla pesca, dalla deforestazione alle monocolture intensive, dall’industrializzazione che succhia energia in quantità elevatissime allo spreco di manufatti da acquistare e buttare a ritmo sempre più vorticoso.

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Quale percorso tra fede e ragione?

Rispondiamo volentieri a una praticante di Darsi Pace che ci scrive a proposito dei disagi che causano in lei certi contenuti su Internet, apparentemente credibili ma in realtà deboli nella sostanza.

Carissima Rosalba,

a proposito del video di Corrado Malanga che ci hai segnalato e delle perplessità che ben si evidenziano in modo così fervido dalle tue forti espressioni come “abisso terrorizzante” e “schizofrenia tra fede e razionale”, riteniamo sia importante fare qualche considerazione di carattere generale.

Ti ringraziamo per la tua domanda perché ci dà un importante spunto a riflettere su questi nostri tempi, cosa che il nostro movimento non manca mai di fare.

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La scienza è un metodo

Definire bene le cose è il primo passo verso la chiarezza del pensiero. La corretta definizione di scienza la libera da tanti pregiudizi e ne restituisce la limpida semplicità che le è propria.

In effetti è così. La scienza è essenzialmente un metodo. Cultura e spiritualità hanno un compito pedagogico infinito, anche (aggiungo io) nel farci comprendere la vera natura dell’impresa scientifica.

La scienza è un metodo straordinario che ha dato risultati travolgenti. Un metodo di verifica, decisamente un bel metodo. Capace di schiarire la mente, aveva davvero ragione Friedrich Nietzsche. Personalmente, ho sempre avvertito come un buon articolo scientifico faccia pulizia nel cervello, allontani un po’ le paure ingiustificate, liberi i neuroni da tante scorie di pensieri pseudo filosofici perlopiù errati. La vera scienza fa bene al cuore, alla mente e al fisico.

Lo scientismo è invece una filosofia (da quattro soldi, aggiunge Marco Guzzi in questo estratto). Propria di persone che non conoscono la filosofia, i grandi passaggi del pensiero filosofico. Costellato di dogmatismi, che sono quanto di meno scientifico esista al mondo. Abbiamo un compito, che è quello di celebrare la scienza, difendere la vera scienza, dandole il suo ambito, che è un ambito molto preciso.

L’estratto a cui mi sto riferendo è una piccola parte della ben più estesa video intervista “Costruire la PACE dentro un sistema di GUERRA” a cura di Silvana Carcano, reperibile da YouTube (e per la limpidezza di visione e la rilevanza dei temi trattati vale senz’altro la pena di guardarlo tutto, anche se la parte dedicata alla scienza, di interesse specifico in questa sede, è concentrata nell’estratto che proponiamo).

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Digitale vs Analogico

Dobbiamo stare “al nostro posto” o dobbiamo lavorare per unire le divere competenze, armonizzare le diverse prospettive?

Un monito a rimanere vigili, perché la diversità di competenze non si trasformi nella trappola della separazione contrappositiva dei settori.

Lo scienziato sta nel suo laboratorio.
Il politico sta al governo.
L’economista sta nella City.
Il panettiere sta davanti al forno.
Lo studente sta a scuola.

Ognuno ha il suo cassetto in cui stia comodo comodo, abbia le sue competenze e veda di non interferire con le attività degli altri! Stai al tuo posto, nella tua specialità, non invadere il mio campo.

Spesso rischiamo di vederla così. Ognuno ha il suo recinto, pressoché impermeabile a quello degli altri; quindi, marchiamo il territorio e nessuno osi oltrepassare il confine di proprietà. Mi verrebbe da dire che adottiamo una prospettiva digitale, dove tutto è netto, codice binario, limiti precisi, nessuna sbavatura.

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