Teologia del caso

Investigando il significato che diamo a questa parola, riusciamo davvero a comprendere molto riguardo che stato complessivo del nostro essere “decidiamo di creare”.

Cosa diciamo, cosa evochiamo veramente quando facciamo riferimento al “caso”? La parola com’è noto viene dal latino càdere, e di per sé indica semplicemente ciò che ac-cade, ciò che (ci) capita da un punto di vista fattuale. Oltre a questo però l’espressione non spiega nulla sul perché, cioè sul senso di un determinato fatto. Dire perciò che quell’uomo, uscendo di casa, “per caso” ha preso la pioggia non mi sta dicendo propriamente nulla sul significato di quell’evento. Casomai sta solo constatando che, non essendo la pioggia un fatto necessario o prevedibile con certezza, è piovuto proprio mentre quell’uomo usciva di casa sulla base di una minore o maggiore probabilità che accadesse. 

I vecchi paradigmi deterministi, sia religiosi che secolari, pretendevano di dare senso all’accadere umano affermandone l’unitarietà organica e necessaria, mettendo cioè in connessione i singoli eventi in un orizzonte più o meno rigido, di tipo metafisico prima (“Non cade foglia che Dio non voglia”) e immanente poi (Meccanicismo empirico). Con la crisi del pensiero medievale e oggi anche di quello moderno, la scienza esatta si è rivolta preminentemente a modelli di tipo probabilistico, affidando l’origine dell’accadere (che un tempo pretendeva di spiegare in modo certo) alla imprevedibilità (relativa) del cosiddetto “caso”. Il caso diventa così un concetto epistemologico centrale, vicario plenipotenziario del vecchio motore immobile dell’universo. Se la mattina mi alzo con la luna storta oppure se nello spazio esplode una stella, la causa ultima non è né Dio né una catena necessaria di fattori: è invece il caso.

Il problema però è che il caso è e resta un concetto descrittivo, non esplicativo. La natura casuale del cosmo, agli occhi dell’uomo post-moderno, dice solo che non abbiamo più alcun modo di prevedere, controllare o fondare razionalmente il senso (quindi l’origine e la causa ultima) degli eventi visibili. Detto in termini metafisici, il caso è la causa prima del reale ridotta a eterno punto interrogativo, portato in quanto tale a coscienza storica. Il nostro continuo appellarci al “caso” è perciò un tappabuchi in senso tecnico, un’abdicazione mascherata a volere o potere fornire un’autentica comprensione di senso dei fenomeni.
Ma il bello deve ancora venire.

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Scienza e rivelazione alla svolta dei tempi

Durante l’attuale emergenza pandemica abbiamo assistito ad un ulteriore aggravarsi della già avanzata deriva scientista-tecnocratica delle società moderne. È stata infatti soprattutto l’unilateralità materialistico-burocratica delle politiche sanitarie a generare uno spaventoso malessere supplementare aggiuntosi a quello già intrinseco del virus. La scienza stessa, specie se consideriamo l’ambito della pubblica informazione, è stata ridotta quasi sempre ad un penoso fideismo scientista (la cosiddetta “fede nella scienza” come nuovo imperativo di massa), il quale peraltro – dando luogo puntualmente ad una catasta spropositata di contraddizioni e ripensamenti su ciò che fino a un istante prima si pretendeva di “assicurare” e “garantire” – ha rivelato piuttosto la sua natura neo-oscurantista, nutrita delle superstizioni e delle paure primordiali volontariamente alimentate nell’animo dei cittadini (già di per sé non poco terrorizzati). L’esasperarsi di questo fenomeno tuttavia rimanda ad una crisi molto più antica e profonda, risalente perlomeno al XIX secolo, quando il modello di conoscenza oggettivistico-scientifico iniziò a imporsi in tutti gli ambiti del sapere, creando una vera e propria frattura rispetto a ciò che più tardi Husserl avrebbe chiamato mondo della vita. Con questa espressione il filosofo si riferiva a quella sfera più immediata ed esperienziale del nostro essere-al-mondo che di per sé non si lascia ridurre né spiegare dalla sola razionalità calcolante. Lo stesso Husserl, provenendo dall’alveo del pensiero logico-matematico, si rese conto che proprio l’estremizzarsi della tendenza specialistica delle scienze esatte aveva prodotto già al suo tempo la perdita mortale di quell’orizzonte originariamente unitario (e quindi vivente e vitale) del sapere umano. Scriveva perciò nel 1922:

«La riflessione logica generale doveva subito metter in chiaro che tutte le sfere conoscitive erano connesse tra loro e che nessuna scienza poteva restare isolata, che tutte dunque dovevano essere unite in una filosofia. E analogamente, in chiave pratica, che tutte le scienze potevano ottenere alla fine una relazione fruttuosa con un agire possibile, che esse avevano perso di vista il senso originario che tutte le scienze erano chiamate a servire. (…) Essa [la scienza] raccoglie senza posa immensi tesori di fatti e di teorie, e ha molto da insegnare: soltanto una cosa non insegna, a comprendere il mondo e l’esserci dell’uomo, così da poter formare liberamente il mondo e noi stessi nello spirito della ragione. Questa, però, è l’unica cosa “necessaria”, e non la cieca coscienza di avere, in quanto scienziato o per il vincolo della scienza, molto potere e di realizzare sempre nuove “prestazioni”».

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