L’impresa scientifica – l’abbiamo sottolineato molte volte, in queste pagine – non ha per nulla bisogno (contrariamente a quanto comunemente si pensa) di un asettico distacco dell’esaminatore rispetto al materiale di laboratorio, mentre si giova moltissimo di un approccio inverso, dove anche il sentimento viene tenuto in debita considerazione. Si tratta però di capire bene in che modo tenerne conto.
Urge contestualizzare. In questi mesi, accogliendo un suggerimento di lavoro proveniente dal movimento di Comunione e Liberazione, ho ripreso dall’inizio il testo di don Luigi Giussani, forse il suo più celebre: Il Senso Religioso. Questo costituisce il primo dei tre volumi in cui si articola la proposta del suo perCorso (gli altri sono rispettivamente All’origine della Pretesa Cristiana e Perché la Chiesa). Come è stato notato in altra sede, questo primo è un volume che parla pochissimo di metafisica o teologia, mentre si sofferma molto della modalità corretta del conoscere, considerata a ragione una premessa essenziale a tutto il resto. Riguardo poi il mio Giussani, con grande piacere (e con una innegabile senso di rassicurazione: ero finito nel posto giusto), mi accorsi già molti anni fa che i primi due volumi del suo perCorso sono presenti nella bibliografia consigliata per il triennio di Darsi Pace. Tutto torna, insomma.
Ha senso leggere ancora questo libro, a tanti anni dalla pubblicazione (la prima edizione è addirittura del 1986)? A mio avviso, sì. Testi come questi, io credo, non finiscono mai di dire quel che hanno da dire. In un certo senso, maturano con il lettore stesso: camminano con lui. Dietro una apparente semplicità e linearità espositiva, si nasconde infatti una tale densità concettuale, che io ricevo sempre cose nuove quando li rileggo, anche a distanza di anni. Forse è perché sono cambiato io, e dunque mi posso fare raggiungere da altre suggestioni, altri concetti rispetto a quanto portai a casa nella prima lettura. Volta per volta, mi faccio toccare da ciò che incontra maggiormente la mia attuale sensibilità. Così capita a tutti, credo.
Del resto, molte cose sono cambiate – in me e fuori di me – da quando lo lessi per la prima volta. Non esisteva AltraScienza allora, non esisteva nemmeno Darsi Pace (non c’erano ancora i gruppi), non pensavo nemmeno che avrei impiegato parte del mio tempo ragionando sulla scienza e soprattutto sulle possibilità di una nuova scienza, che con alcune amiche ed amici – praticanti di Darsi Pace – avremmo cercato di avviare un lavoro comune, lavoro di cui questo blog è in qualche modo espressione. Non sapevo niente di questo e dunque non potevo ricevere niente, in questo specifico ambito di frequenze.
Così mi spiego perché ora risuono su certe cose che leggo. Di più, mi sembrano importantissime in questo esatto ambiente, per questo specifico lavoro. Torno però al libro di Giussani: scelgo, in questa sede, degli estratti dal terzo capitolo del testo.
La ragione è immanente a tutta l’unità del nostro io, è organicamente relata, per questo in presenza di un dolore fisico non si utilizza bene la ragione, o in presenza di rabbia o delusione per l’incomprensione altrui.
Questo è già un primo accenno importante al fatto che sia impossibile un approccio freddo e distaccato verso qualsiasi oggetto di ricerca, come una certa mentalità razionalistica (di cui tutti siamo impregnati) vorrebbe imporre.
Del resto, viene detto poco più avanti, che
la ragione non è un meccanismo disarcionabile dal resto di questo cavallo che è l’uomo in corsa per la sua strada; essa è profondamente e organicamente relazionata al resto dell’io.
La cultura moderna (per Giussani, razionalistica ed illuminista1) propugna invece testardamente l’ipotesi di una ragione senza interferenze. Difatti,
La ragione è pensata come capacità di conoscenza che si sviluppa nei confronti dell’oggetto senza che niente debba interferire: se dunque ci deve essere una interferenza, come è quella dello stato d’animo e del sentimento, allora comincia a emergere l’interrogativo se possa essere una conoscenza oggettiva, una conoscenza vera dell’oggetto, o invece non sia tutta o in parte impressione del soggetto.
Si tratta dell’atteggiamento che possiamo avere davanti alla frapposizione del sentimento tra noi e l’oggetto del conoscere. Un sentimento che per Giussani non va affatto eliminato, ma semplicemente collocato nel posto giusto.
Continua infatti
… è realmente una mistificazione immaginare che il giudizio con cui la ragione cerca di raggiungere la verità dell’oggetto sia più adeguato, sia dignitosamente più valido, quando lo stato d’animo sia in perfetta atarassia, in completa indifferenza.
Qui vale la pena fermarsi, perché se questa frase trova facilmente il nostro generico assenso, dobbiamo riflettere di quanto all’atto pratico, invece, cadiamo spesso nell’idea opposta: quella appunto di un ipotetico (ed irreale) scienziato distaccato che osserva la realtà con un atteggiamento asettico. O come un medico che si prefigge di trincerarsi dietro ai protocolli (o magari all’intelligenza artificiale, oggi) ma rifugge il contatto umano con i pazienti. Vediamo dunque, che questa frase è meno scontata di quanto apparirebbe ad una prima veloce lettura.
Bisogna realmente cambiare paradigma. Il punto di svolta è nel non considerarsi macchine, che analizzano sequenzialmente quel che gli viene fornito in input, ma delle creature con ragione e sentimento, indissolubilmente legati tra loro. E’ un concetto (sempre) nuovo dell’umano, che va ripreso. Nuovo, contro ogni semplicistica (ed ideologica) riduzione.
… se una determinata cosa non mi interessa, non la guardo: se non la guardo non la posso conoscere. Per farne conoscenza ho bisogno di porre attenzione a essa. Attenzione vuol dire, dal latino, «essere tesi a….». Se mi interessa, mi colpisce, sarò teso nei suoi confronti.
Io scienziato, non sono un automa. La storia della scienza del resto, parla da sé. L’entusiasmo, la passione, l’interesse attivo, sono importantissimi per le nuove scoperte. Proprio come dice Giussani, la tensione nei confronti dell’oggetto.
Per una fortunata correlazione con il presente, analoghe idee le trovo compiutamente esposte nel bell’editoriale di ottobre a firma di Giuseppe Tanzella-Nitti sul sito DISF.org.
Ogni conoscenza, anche quella razionale, filosofica o scientifica, possiede una dimensione personalista. Il rapporto fra fede e ragione non si gioca solo a livello epistemologico, valutando la compatibilità dei contenuti e la correttezza delle implicazioni. Esso coinvolge anche il piano antropologico, segnato dall’adesione personale alla verità cercata, dalle passioni intellettuali, dalla percezione della dimensione etica. Inoltre, Mouroux sembra voler dire ai ricercatori contemporanei che non si potrebbe conoscere la natura senza legarsi emotivamente ad essa, senza sentirsi legati alla verità che essa incarna e significa, senza riconoscerla come sede di un mistero eccedente.
Sono dunque – ci fosse stato ancora il bisogno di specificarlo – preoccupazioni ed istanze assolutante attuali.
Ma tornando a Giussani, il capitolo – di cui senz’altro invito alla lettura – prosegue poi con altre fondamentali considerazioni, specificamente sulla moralità nel conoscere, ovvero sull’amore alla verità più che alle opinioni che ci siamo fatti di una certa cosa.
Io però mi fermo qui. A meditare una parte di un testo che, pur uscito molti anni fa, non ha ancora esaurito la sua funzione. E che appunto, si rivela capace non soltanto di parlare a tutti, come i grandi testi sanno fare, ma anche di parlare ad uno scienziato in modo specifico: dell’attitudine da mantenere nel proprio lavoro, perché sia veramente utile, veramente fecondo.
Le considerazioni di Giussani, che ad una lettura superficiale possono sembrare di semplice buon senso, delineano a parer mio quei tratti di una nuova scienza che sovente proviamo a maturare in queste nostre pagine, inseguendo la quale – in una mattinata per me memorabile – abbiamo posto in dialogo personaggi interessanti come Marco Guzzi e Federico Faggin. Una nuova scienza che preme ormai per irrompere con più forza e gioia nello scenario dell’avventura conoscitiva umana.
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Ed già avverto l’eco di Guzzi e della Carta della Nuova Umanità, dove parla della visione antropologica riduzionistica, algoritmica, materialistica, scientistica, consumistica, e alla fine nichilistica, e bellica ↩︎
Grazie Marco, per questo stimolante intervento, che ci può aiutare a definire un modalità di fare scienza adeguate alle pressanti sfide contemporanee che l’umanità si trova ad affrontare.
Non ho letto il libro di Giussani, ma mi sembra importante fare un’osservazione che si collega a quanto dici.
Partendo dalla citazione:
“… è realmente una mistificazione immaginare che il giudizio con cui la ragione cerca di raggiungere la verità dell’oggetto sia più adeguato, sia dignitosamente più valido, quando lo stato d’animo sia in perfetta atarassia, in completa indifferenza.” osservo che quando certi scienziati si sono permessi di fare osservazioni “scientifiche”, o per meglio dire scientiste, collegate a una idea di scienza calata dall’alto, proprio allora si sono manifestati come espressioni di interessi volgari legati al business più immorale. I casi a cui faccio riferimento (perché hanno colpito la mia coscienza) sono due. Il primo è quello del prof. Burioni, intransigente con chi non si vaccinava (arrivando a dichiarazioni disumane e disumanizzanti) apparentemente nel nome di una sacralità della scienza, ma invece collegato da forti interessi con le case farmaceutiche.
Il secondo è la dot.ssa Cattaneo, che nella sua accusa di “stregoneria” (e quindi anche qui di “lesa maestà” alla sacralità nei confronti della scienza) contro l’agricoltura biodinamica, si metteva (consapevolmente o no) al servizio dell’agrobusiness più bieco.
In questi casi, la pretesa di rappresentare una scienza super partes e scollegata da ogni interesse terreno diventava l’alibi per poter esprimere interessi fortemente di parte.
Ben venga dunque l’idea che ogni scienziato esprima delle opinioni fortemente collegate con la sua situazione personale, magari anche collegato a interessi che in ogni caso andrebbero esplicitati sinceramente, in modo che si possano considerare i bias cognitivi sempre presenti in un’opera dell’intelletto (compreso addirittura quello delle IA, come abbiamo visto).