L’incontro è iniziato con una presentazione biografica di Federico Faggin, a partire dalla sua infanzia a Vicenza, gli studi e le sue imprese alla Silicon Valley, che l’hanno portato a interrogarsi sul substrato fisico della consapevolezza. In seguito ad alcune cruciali esperienze spirituali, che hanno rigenerato il suo punto di vista sul rapporto tra realtà fisica e coscienza, Federico è stato costretto a rivedere completamente l’approccio teoretico con il quale aveva affrontato il problema della coscienza, trovando nel contempo la via per uscire dalla crisi di senso (propria dell’uomo moderno) nella quale il suo animo era imprigionato. In questo percorso ha creato una fondazione con lo scopo di promuovere la scienza della consapevolezza.
Il suo discorso parte dalla considerazione che nell’universo possono essere identificati due aspetti complementari: un aspetto creativo e un aspetto algoritmico. L’aspetto creativo si esprime nell’animo umano, che si impegna e riesce a risolvere i problemi che l’esistenza gli sottopone, e che inoltre si dedica allo sviluppo delle arti, alla ricerca della verità e della bellezza. La creatività non è propria solo dell’umano, ma di tutta la vita in genere. Ogni essere vivente, dal più semplice al più complesso, è impegnato a risolvere problemi che gli sottopone l’esistenza e, e come noi, lo fa in maniera creativa, secondo le capacità di cui è dotato. Di contro, l’aspetto algoritmico consiste in tutte quelle attività che riconosciamo come meccaniche e riconducibili a fenomeni deterministici. La ricerca scientifica si è concentrata sugli aspetti deterministici, e quindi abbiamo scoperto l’esistenza di leggi fisiche cui risponde la materia. Il punto è che anche la materia vivente risponde alle leggi fisiche, ma essa non è determinata solamente da queste: in essa è presente anche un aspetto creativo. Il problema della scienza (e anche della civiltà occidentale, ora globalizzata) consiste nell’aver perso di vista il valore “cosmico” dell’aspetto creativo della realtà.
La nostra creatività ci ha permesso di costruire macchine sempre più perfezionate che implementano dinamiche complesse, che mimano sempre più fedelmente alcuni aspetti cognitivi degli esseri viventi e in particolare dell’umano. Un computer moderno può compiere una gran quantità di calcoli molto velocemente, dandoci l’impressione di essere intelligente nel momento in cui è capace di risolvere problemi complicati, che mettono alla prova le capacità del nostro cervello biologico. Queste performance stupefacenti sono state esaltate dal marketing che ha adottato con successo il termine intelligenza artificiale, modo di dire che consolida in noi l’idea che queste macchine possano realmente esprimere intelligenza creativa. Il dato di fatto, ci assicura Federico, è che la vera creatività è quella dei programmatori (umani!), i quali sviluppano gli algoritmi sempre più perfezionati che l’IA esegue. Inoltre, quando l’algoritmo ha difficoltà a risolvere un problema che non è contemplato dalla sua programmazione, ha sempre la possibilità di accedere alla rete per chiedere ai suoi sviluppatori un aiuto creativo da fonte umana.
Perciò l’aspetto creativo che viene espresso dalle macchine è sempre e comunque un riflesso degli esseri umani che le hanno costruite, e che ne guidano le azioni quando queste devono affrontare problemi nuovi. Il grande pericolo che corre la nostra società è di affidare alle macchine il controllo degli aspetti importanti, “politici”, ritenendo che la loro estrema “intelligenza” possa magicamente comprenderli e risolverli nel migliore dei modi, in maniera che presumiamo oggettiva. Questo è un grande errore di valutazione, perché in realtà affidiamo la nostra società ai proprietari di queste macchine che, sfruttando il prestigio delle “intelligenze artificiali” indirizzano le decisioni importanti per assecondare i loro interessi.
Un altro pericolo che corriamo è l’acquisizione incontrollata di dati biometrici da parte di istituzioni e corporation private, dati che poi vengono usati per vendere prodotti commerciali o, peggio, per manipolare l’opinione pubblica, influenzando le decisioni politiche (celebre è il caso di Cambridge Analitica). Per questo sono nate delle campagne per la salvaguardia dei dati biometrici, come quella promossa a livello UE, che si è chiusa ad agosto. A proposito di questo importante tema, segnalo un’altra radicale campagna contro la digitalizzazione incontrollata della società, che sta nascendo in questi giorni in seno ad alcune associazioni amiche: Appello contro l’obbligo digitale.
In questa preoccupante situazione, possiamo però constatare come una parte dell’umanità sia pronta a riconoscere che il modello fisico materialista non è soddisfacente, e che invece possiamo considerare la realtà in maniera radicalmente diversa, passando da un modello riduzionista, che ignora il fenomeno della coscienza, ad uno olistico, cioè capace di tenere insieme aspetti della realtà oggi sono considerati separati, e che riconosce quella profonda dimensione spirituale della realtà che in passato ha alimentato i miti e le religioni.
Possiamo pertanto riconoscere che realtà, nella sua profondità, non è algoritmica ma creativa, e ogni aspetto di creatività presente nella vita biologica e in noi esseri umani, non è che un riflesso di quest’unica creatività presente nella realtà.
Da questo punto di vista possiamo rendere ragione del libero arbitrio (espressione diretta della nostra creatività) di fronte a chi lo nega aderendo al paradigma materialista. Analogamente, possiamo rivedere l’idea che la morte biologica, che coinvolge solo gli aspetti algoritmici/meccanici della realtà (quindi il nostro corpo materiale) mentre l’aspetto creativo, la nostra essenza, è proprio la sorgente della vita, ed è quindi immune dal fenomeno della morte.
Nello specifico, il libero arbitrio è diverso dalle azioni automatiche che facciamo di tutti i giorni senza pensarci, ma che esercitiamo per esempio quando dobbiamo prendere una decisione importante sulla quale riflettiamo a lungo. Teoricamente, esso è connesso strettamente con le leggi relative all’indeterminazione quantistica, secondo la quale il comportamento futuro di un sistema non è prevedibile completamente dallo stato presente, ma possiamo prevederlo solamente in probabilità.
Chiamando Uno la totalità di ciò che esiste (sia in potenza che in atto), possiamo dire che questo futuro aperto altro non è che la scoperta che Uno fa di sé stesso. Le diverse coscienze, che sono parte di Uno, sue determinazioni, punti di vista, anch’essi coinvolti nel processo di auto-conoscenza di Uno. Ognuno di noi è speciale, unico e irripetibile in quanto particolare punto di vista o prospettiva di Uno. Il comportamento di Uno è predicibile solo quando Uno sa chi è, ma finché non l’ha deciso, il comportamento di Uno è indeterminato. Qui, mi viene da pensare che il fenomeno dell’incarnazione di Cristo assume un valore particolare, come se Dio avesse avuto bisogno di Gesù per determinarsi, per “decidere” chi era, e che la storia della Rivelazione, concetto cardine delle religioni abramitiche, non sia solo la rivelazione di Dio all’uomo, ma anche di Dio verso sé stesso.
Ancora, come noi possiamo operare delle scelte che influiscono sul nostro futuro, così le particelle elementari, oltre che un aspetto pubblico, misurabile, possiedono un aspetto “privato” (conoscibile solo da loro stesse) che noi formalizziamo nel principio di indeterminazione. Provo un senso di vertigine nel contemplare queste riflessioni sulle particelle elementari poiché esse, così aliene alla nostra esperienza quotidiana, ci rimandano direttamente alla meditazione sulla nostra stessa interiorità. In questo meditazione ripristiniamo un salutare principio di unità tra tutte le cose “visibili e invisibili” che nella fisica di stampo cartesiano avevamo smarrito.
Nel suo complesso la vita biologica ha la proprietà di mantenere uniti l’aspetto algoritmico e l’aspetto creativo, cioè manifesta aspetti sia classici che quantistici. In questo senso tutto l’universo interconnesso, olistico, è vivo e creativo, perché questi aspetti si manifestano a tutte le scale, dalla particella subatomica alla galassia. Noi esseri umani possediamo la capacità (unica, a quanto ne sappiamo) di essere coscienti della nostra coscienza.
Come la realtà è costituita da un aspetto esteriore/algoritmico ed uno interiore/creativo, anche la fisica si struttura secondo un approccio classico ed uno quantistico. Oggi che sappiamo che l’universo materiale è costituito da una somma di campi quantistici, possiamo metaforicamente pensare che la fisica classica descriva in qualche modo l’aspetto esteriore, simbolico e algoritmico dell’universo, mentre quella quantistica ne descriva l’aspetto interiore, essenziale e privato.
Per parlare del rapporto tra il nostro corpo e la nostra coscienza Federico ha anche utilizzato l’esempio del drone: se noi vediamo un drone muoversi e fare acrobazie, magari reagire alla nostra presenza e ai nostri stimoli, potremmo pensare che esso abbia coscienza, ma la realtà è che la coscienza, quella che dirige il drone, non è collegata al suo corpo, è situata altrove. E la distruzione del drone non sarebbe un grosso danno per la coscienza che lo anima.
Dopo l’intervento di Federico ci sono state diverse domande, limitate dalla mancanza di tempo dedicato ad esse. Una era relativa al rapporto tra computer quantistici e coscienza, un’altra sull’identificazione della nostra coscienza con ciò che essa controlla, in particolare con il corpo. Gli è stato chiesto anche del rapporto della sua teoria con quelle di Tononi (neuroscienziato) e di Donald Hoffman (psicologo) anch’essi impegnati nello sviluppo e nella divulgazione di teorie sulla coscienza.
Mi sarebbe piaciuto un approfondimento riguardo a come questa teoria permetteva di ridefinire la freccia del tempo e di conseguenza anche l’entropia. Questo perché, mentre Rovelli ci racconta di come la fisica abbia messo in forte discussione il concetto tradizionale di tempo, la questione dell’entropia è di primaria importanza quando si parla del destino dell’universo materiale (la cosiddetta morte termica, che antropologicamente rispecchia il destino del corpo umano). Ho l’impressione che questa nuova visione, permeata dall’idea di una coscienza che vuole conoscere sé stessa, permetterebbe di capire meglio la “direzione naturale” dell’universo materiale, che potrebbe essere di una vita infinita, immagine che corrisponderebbe meglio alle idee cristiane e a quelle di Teilhard de Chardin.
In concomitanza dell’incontro era in vendita il nuovo libro di Federico Faggin “Irriducibile”, che approfondisce i temi trattati nella conferenza.
Sebbene si stiano facendo dei passi avanti nel dialogo tra comunità scientifica ed esponenti delle religioni tradizionali (segnalo il post introduttivo di Vincenzo Iannace sul nostro blog), l’opinione pubblica è perlopiù divisa tra le persone che ripongono la loro fiducia negli strumenti della scienza e della ragione, nella rassicurante semplicità della materia, e chi invece considera preminenti gli insegnamenti delle sacre scritture o la “paterna autorità” della tradizione religiosa e che percepisce il libero pensiero come una minaccia.
Osservando le manifestazioni di stupore di chi aveva ascoltato il discorso di Federico, mi sembra che queste ricerche stiano tracciando una via per liberare la nostra mente dal blocco materialista nel quale siamo cresciuti e per rivolgere lo sguardo dell’intelletto verso il profondissimo e misterioso abisso della coscienza. Questa coscienza che non è solo personale o solo cosmica, ma che da una parte risiede nelle nostre stesse profondità ed al contempo è anche cosmica, creatrice di cielo e terra.
Il quadro interpretativo che viene offerto da queste ricerche non risolve il mistero della coscienza (forse non lo risolveremo mai), ma ci fornisce di alcuni strumenti in più per poter intraprendere un percorso di esplorazione delle profondità dello spirito, che sono le profondità di noi stessi, senza dover rinunciare all’uso della razionalità. Una razionalità più umile, che ha rinunciato alle sue pretese di assolutezza, che trova perciò il suo posto nell’ambito di una sapienza più ampia. Una sapienza “multidimensionale”, costituita da una scienza fisica che è finalmente in grado di relazionarsi positivamente sia con la spiritualità umana sia con il patrimonio culturale che a essa fa riferimento, quello che Marco Guzzi, nella Nuova Umanità, chiama “le fonti vive della cultura umana”.
Negli studi di Federico Faggin e in quelli di altri appassionati studiosi possiamo perciò intravedere l’aprirsi di una nuova era, paragonabile a quella delle grandi esplorazioni. Quello che andremo ad esplorare ora saranno le sconfinate ampiezze dello spirito (finora dominio esclusivo dei letterati, dei poeti e dei mistici) con i loro pericoli, le loro baie, i loro singolari abitanti, ospitali o predatori. Un percorso più arduo e sfidante di quello rivolto verso le profondità dello spazio, che affrontiamo con lo stesso stato d’animo di chi un tempo andava per mare, alla ricerca di nuove terre da esplorare.
gentile Christian, grazie per aver linkato l’Appello contro l’obbligo digitale, un tentativo di unire su un tema che certo necessita di essere messo in una agenda politica umanista e portato sia in Europa che nel mondo, pur sotto sempre peggiori avvisaglie di totalitarismi. Ti segnalo, affine al questo interessante post sul libro di Faggin, un articolo che ho scritto tempo fa per Singola e che prende in esame gli stessi temi con una prospettiva filosofica. Sempre su questo binomio “weiliano” (continuo/discreto) scrisse anche Galasso tempo fa, e non possiamo dimenticare il fondamentale lavoro di C.G.Jung, mai abbastanza approfondito.
un caro saluto
FPA
https://www.singola.net/pensiero/facebook-e-l-aldila-viaggio-internet-noosfera
Grazie a te e al tuo gruppo per aver creato l’appello, che speriamo sia di supporto per alimentare un dibattito pubblico sempre più addormentato.
Amo e apprezzo moltissimo la visione di Teilhard de Chardin, mentre non conoscevo Sloterdijk:
«Cinismo è la falsa coscienza illuminata, ossia la modernizzazione infelice della coscienza alla quale l’Illuminismo ha lavorato, a un tempo, con successo e inutilmente».
Cercherò di approfondirlo prossimamente.
A presto,
Christian
Quando ho visto la copertina del libro che ha proposto Mondatori mi si sono subito alzati i miei paletti difensivi che dicevano:
– è chiaro che quello che dice Faggin non è scienza, è più una riflessione filosofica su una realtà…. allora perchè parlare di “nuova scienza” come se dovesse essere rifondata?
– ecco, il solito titolo da editore acchiappa consensi che in realtà dice cose approssimative….
– Faggin non può avere sostenuto questo…. lui da vero scienziato.
Ma poi mi sono detto: un momento… questa cosa però l’ho già sentita, e non mi si è accapponata la pelle come adesso….
Il mantra “scientifico” classico ci dice che la scienza si radica nei risultati sperimentali e solo da questi trae forza e linfa. Se una cosa non è dimostrata o dimostrabile rimane una chiacchiera, da relegare alle credenze e alla pseudoscienza. Ok.
Ma a ben pensarci molte delle ricerche oggi in essere, in particolare quelle della fisica teorica non solo non si ha la minima idea se si possa verificare sperimentalmente, ma è addirittura impossibile, anche teoricamente, verificare, almeno con le conoscenze attuali.
Pensiamo ad esempio a come funziona un buco nero: nessuno potrà mai andare a verificare sperimentalmente cosa c’è dentro o anche in prossimità di un buco nero, quindi molte delle cose che accadono rimarranno per sempre un mistero. Non per questo però diciamo che ciò che sappiamo su un buco nero sia pseudoscienza, sia perchè abbiamo altri dati sperimentali che ci danno conferme indirette sia perchè possiamo comunque andare avanti sulla base di ragionevoli supposizioni etc…
Innumerevoli sono altri esempi simili:
a) i confini dell’universo (sfera di Hubble)
b) indagare cosa c’era “prima” del Big Bang
c) la teoria delle stringhe
d) l’universo olografico
etc… sono tutte cose che potrebbero essere veramente impossibili da verificare sperimentalmente, anche da un punto di vista teorico.
Eppure non rinunciamo a indagare, non diciamo che quella non è scienza o è pseudoscienza.
Dunque…. forse il paradigma della verificabilità sperimentale deve quantomeno trovare una deroga nel momento in cui non sappiamo oppure non possiamo avere quella verifica (sempre salvo future scoperte).
Ciao Fabrizio, ho difficoltà a seguire la tua linea di ragionamento, perché mi pare che la categoria della pseudoscienza sia parecchio abusata, e che spesso vengano appellati come “pseudoscienze” quei modi di fare scienza che semplicemente non rispecchiano le premesse del paradigma materialista.
Mi spiego meglio.
Possiamo pensare, in maniera molto basica, che la struttura della ricerca scientifica sia fatta di queste operazioni eseguite ciclicamente:
– osservazioni riguardo alla realtà (es. raccolta dati)
– costruzione e messa in discussione di teorie che spieghino le osservazioni
– la verifica sperimentale delle teorie (validazione) per accettarle o rifiutarle.
E’ vero, come dici tu, che ci sono dei dati che non si possono avere, ma ci sono anche molti dati che possiamo avere o stimare in probabilità… il rischio di avventurarsi a parlare di quello su cui non abbiamo dati, è di finire a parlare del nulla, perdendo molto tempo (e questo mi pare accada in certe teorie cosmologiche “esotiche”).
Però la rivoluzione di Faggin (che segue la scia di molti altri, come per esempio Teilhard de Chardin) non va a negare i dati che conoscevamo precedentemente (cosa che potrebbe renderla pseudoscienza, qualunque cosa questo significhi). E’ una rivoluzione di paradigma, cioè che prende in considerazione i dati attuali (specialmente quelli della meccanica quantistica), e li reinterpreta da cima a fondo, cioè costruisce un nuovo set di teorie a partire dagli stessi dati a disposizione di tutti gli scienziati. Per me questo è il modo migliore di fare scienza, rompere gli schemi mentali di chi ci precede nel nome di una verità intuita e supportata dai fatti. E’ la scienza per la quale ricordiamo Galilei ed Einstein, che hanno usato la ragione per modificare le immagini del mondo dei loro contemporanei.
La cosa “scandalosa” di Faggin è che punta lo sguardo dove la scienza materialista ha un punto cieco, o preferisce non guardare, ovvero l’esistenza della coscienza, di un “sentire”, “essere” umano che il materialismo nega, sebbene tutti noi lo possediamo e che in Darsi Pace proviamo ad approfondire.
Mi piacerebbe molto che il sistema educativo insegnasse ai ragazzi a “fare” scienza, cioè mettere in pratica nelle loro vite il metodo scientifico, osservando, facendo ipotesi, discutendo e verificando e invece purtroppo quello che viene spesso trasmesso è l’adesione acritica alle affermazioni della scienza mainstream (alla stessa maniera in cui altri aderiscono alle autorità religiose) creando le premesse per la nascita di fondamentalismi. La politica gioca molto su questo per creare divisioni e false credenze nelle masse, come metteva in evidenza Iside nel suo bel post sul CICAP. Se la nostra educazione ci aiutasse a sviluppare un senso critico autonomo, questi fenomeni sarebbero molto ridotti.
Riflettendo, dopo aver cercato la parola su wikipedia, mi pare che la categoria della pseudoscienza possa essere applicata con cognizione di causa dall’aver ben compreso in cosa consista la scienza (in senso positivo, e non come feticcio), altrimenti diventa una parola bellica, che non aiuta a capire, ma buona per screditare chi non la pensa come il nostro gruppo di riferimento (di solito materialista, come fa ad esempio la Cattaneo). Questo per dire che, al di là dei conclamati casi di disonestà intellettuale, non so se esistono dei criteri non-bellici di definire qualcosa come pseudoscienza, perché la scienza stessa avanza sui cadaveri di teorie poi dimostratesi infondate, ma che sono servite per nutrire teorie migliori.
Christian
Grazie per l’interessante discussione, prima di tutto!
Intanto, quello che dice Fabrizio sul metodo sperimentale, come risulta dai suoi stessi esempi (guarda caso, praticamente tutti astronomici) non funziona molto nel campo dello studio del cosmo. Sappiamo bene che lì non possiamo andare a “toccare con mano”, e non solo un buco nero, ma nemmeno una stella, molto più vicina a noi. Ma nemmeno un pianeta extrasolare, almeno al momento.
Ma si tratta davvero di “andare a vedere” ? O meglio si tratta di interpretare in modo scientifico i segnali che ci arrivano, fossero anche oggetti lontanissimi? L’indagine fisica sulle stelle è partita analizzando gli spettri che tali oggetti ci fornivano (praticamente tutto inizia con Padre Secchi, sul quale Giuseppe Tanzella-Nitti venne qui in Osservatorio a fare un seminario davvero molto bello), da lì parte una incredibile avventura tale che oggi siamo in grado di riprodurre minutamente ogni fase di vita di una stella (o quasi), in modo ovviamente “scientifico”.
Così sappiamo moltissime cose dei buchi neri distanti miliardi di anni luce e addirittura sappiamo molto dell’universo. Quindi “verificare” non vuol dire “andare a verificare”, ma mettere insieme i dati di osservazione di cui disponiamo per formare un quadro coerente. Quando incontriamo difficoltà ad organizzare i nuovi dati nel quadro consolidato, è il segnale che dobbiamo cercare un framework più complesso, entro cui organizzare di nuovo tutte le nostre conoscenze.
Il quale framework – notiamo – non ci dice mica che “le cose stanno così”, ma ci dice appena “questo modello rende ragione dei dati che abbiamo”, ovvero “tutto va come se la realtà fosse così” ma poi come è fatta… rimane sempre un mistero. Dire che la luce è particella e onda insieme, è un modo elegante di dire che non arriviamo allo strato di realtà, ma giochiamo con modelli. Utile saperlo, per mantenersi umili! Credo che per come siamo fatti, vediamo la realtà attraverso l’intermediazione di modelli: ma non dobbiamo scambiare la mappa per il territorio.
Diverso forse è indagare cosa c’era prima del Big Bang (ammesso che prendiamo per buono il modello appunto). Se stiamo in quel framework, il Big Bang agisce comunque riomogenizzando totalmente materia ed energia e cancellando ogni eventuale traccia di qualcosa che ci fosse prima. Dunque non possiamo sperare di ottenere informazioni empiriche che ci parlino di un “prima”. Certo, modelli matematici senz’altro, anzi già ce ne sono: universi multidimensionali, brane che si incontrano e che generano il Big Bang, eccetera. Modelli coerenti e ben sviluppati, ma (a meno di sorprese) non dimostrabili.
Io però non direi che ragionare su questo sia pseudoscienza, è costruire dei modelli, anche rigorosi, senza (al momento?) possibilità di verifica empirica.
Il paradigma del metodo scientifico “classico” comunque da un bel pezzo non funziona in astronomia. Esempio classico la ripetibilità: ora come le ripeto le foto di Plutone della sonda New Horizons, che ci ha messo dieci anni per arrivare laggiù? Prima che costruiamo un’altra sonda e la lanciamo potrebbero passare anche secoli. Ma ancora meglio: come li verifichiamo i dati delle sonde Voyager sullo spazio interstellare? Al minimo tra mezzo secolo potremmo forse farlo, se ci mettiamo a costruire un’altra sonda interstellare adesso. E non mi pare che lo stiamo facendo. Diciamo la verità, “ripetibile in teoria” non vuol dire nulla, se nella pratica la cosa non si può fare.
Dunque molti dati sono “irripetibili”. Ce la dobbiamo cavare a capire se ci sono errori sistematici o irregolarità nella catena di acquisizione del dato, ce la dobbiamo cavare senza poter ripetere l’esperimento.
Pertanto, ci vuole elasticità e capacità di adattamento, i criteri del metodo scientifico non possono più essere presi in modo rigido. In qualche modo, sono anche loro figli del tempo in cui sono stati elaborati.
Vengo alla risposta di Christian. Con l’Associazione Italiana TdC stiamo terminando le dirette del martedi, in cui leggiamo “Il Fenomeno Umano” di Teilhard de Chardin, che sempre più mi pare veramente alla base del lavoro di Faggin. Io credo che chi legge entrambi gli autori non possa proprio negarlo. Senza nulla togliere a Faggin, alla sua visione e al suo coraggio, mi pare che a volte ciò che dice sia proprio la proposizione degli assunti di Teilhard riformulati in chiave moderna.
Al di là di questo, Teilhard e Faggin sono scienziati in tutti i sensi (ossia, si sono formati facendo molta scienza “dura”), ma che sfondano un certo limite, osano andare al di là di un paradigma forse ristretto, con coraggio, osando. Ma anche Jung lo è stato, perché insieme al suo “corpus” scientifico indiscutibile (decine di volumi) ha formulato ipotesi e teorie “metascientifiche” in senso stretto (come molte sue speculazioni su una realtà extrasensoriale, sulla sincronicità, su presenze spirituali). Ora, dividere la parte “scientifica” da quella “metascientifica” è un esercizio sempre possibile, volendo: ma sempre più produce “morti e feriti” sul campo, ovvero snatura artificiosamente la portata di pensiero di queste persone, come forzandole in paradigmi a loro insufficienti, elaborati a misura della nostra mente forse meno aperta e coraggiosa.
Ma anche Il Tao della Fisica di Fritjof Capra, attraversato con una stretta lente “scientifica” in senso riduzionista, perde drammaticamente molto di quello che può dirci, di come può farci evolvere come persone. Si può sempre fare di proiettare un pensiero articolato e “sfidante” su un “sistema di autofunzioni” in cui viene drammaticamente ridotto, ma mi pare un’operazione al più inutile, o forse utile a convincerci a non uscire dal nostro giardinetto di certezze semplici e non problematiche.
Ci sono insomma molti segnali che, senza cadere nella pseudoscienza (ma attenzione appunto che questo termine non venga usato in forma bellica per bombardare ogni pensiero “ampio”), ci sia l’esigenza di una “nuova scienza”.
Non ne conosco i contorni, ma non per questo vorrei tirarmi indietro. Faggin fa una cosa molto interessante e coraggiosa. Scandalosa, in un certo senso, per molti scienziati materialisti. Mi interessa molto chi è “eretico” in questo senso, non è detto che poi sono d’accordo su tutto, ma il campo è aperto e sia benedetto chi lo percorre senza paura, insegnandoci che c’è una strada nuova, magari da pavimentare e definire per bene, ma nuova ed emozionante, dove finalmente l’umano non è fatto fuori!
A proposito dell’umano. Nelle ultime pagine del testo di Teilhard si parla della personalizzazione che deve giocare un ruolo anche a scale sempre più grandi, universali: mentre noi il fattore umano lo facciamo fuori quando parliamo di Universo. Se ha ragione lui, potremmo arrivare ad un rivolgimento del modo di conoscere noi e il mondo, davvero capace di illuminare tutto di una luce nuova e anche più bella. Un modo che supera finalmente tutti i riduzionismi ottocenteschi (utili al tempo, ora dannosi) nello svelamento di quel “nuovo universo” che il cuore di tutti segretamente attende.
Grazie,
Marco
Grazie Christian, ottimo articolo.
Giuseppe Faggin, padre di Federico, era un filosofo, studioso del Neoplatonismo e traduttore delle Enneadi di Plotino.
Mi piace pensare che Federico stia in qualche modo portando avanti il lavoro del padre, ovviamente all’interno di un contesto e con una terminologia scientifica.
Trovo il libro di Faggin interessante e divulgativo. Non mi scandalizza il suo “mirare”ad una ricerca che porti a comprensione il fenomeno della “coscienza”. Anzi, mi pare sul solco di altri grandi scienziati che hanno messo al centro del loro cercare questo fenomeno: Cristof Coch ad esempio ed ancor più Roger Penrose (Nobel per la Fisica 2020). Di quest’ultimo considero una pietra angolare il suo libro “La mente nuova dell’imperatore” dove illustra il percorso di una vita di ricerca volta a cercare di descrivere il fenomeno “coscienza”.
Rispondo adesso, perché non avevo visto il commento.
In effetti ho amato il libro di Penrose, che ha il merito di mettere insieme vari concetti fisici mostrando come questi possano essere connessi con il fenomeno della coscienza.
Grazie!