Il tempo della ricerca

Il metodo scientifico è un modo di studiare che richiede (anche)la consapevolezza del fatto che si sta maneggiando una conoscenza in continuo rimodellamento.

La ricerca scientifica nasce dalla curiosità umana di conoscere. Procede per interrogazioni. Spesso si sentono scienziati dire che sono molte di più le domande rispetto alle risposte e che ogni risultato apre sempre nuovi quesiti.

Il metodo scientifico è fondamentalmente probabilistico. La certezza non esiste, si hanno soltanto approssimazioni. I risultati sono sempre in riformulazione a partire dall’integrazione di nuovi dati, man mano che vengono validati da nuove ricerche.


A partire dai dati sperimentali, si delinea una teoria che crea una narrazione: quest’ultima rende quei dati più comprensibili e mentalmente meglio maneggiabili. Infatti, intuizione ed immaginazione giocano un ruolo essenziale nel provare a tracciare rappresentazioni del mondo.

Per capire, ci servono racconti come ad esempio quello evolutivo. “Ogni teoria ha bisogno di un’idea e di una storia” per dirla con Stephen Jay Gould (“La struttura della teoria evolutiva”, Codice editore).

Nulla però dura per sempre, neanche la più affascinante teoria. Nuovi dati sperimentali non integrabili alla fine la faranno smantellare e se ne costruirà una nuova. Con pianto e stridore di denti, dato che ci affezioniamo ad un modo di pensare che abbiamo usato magari per decenni. Poi però dovremo elaborare il lutto e comporre una nuova figura.

Non dare nulla per scontato, farsi sempre domande, mettere in dubbio, richiedere prove ulteriori, ma anche tenersi aperti al cambiamento, pronti a modificare la teoria se le prove sperimentali lo rendono necessario. Questo è lo stile.

“È sicuramente così punto e basta; ne sono certo, non ho dubbi” non sono frasi in stile scientifico.

Se infatti ricordiamo…

  • la probabilità su cui si basa la ricerca scientifica,
  • la domanda che sta davanti ad ogni risultato,
  • la consapevolezza della parzialità del singolo esperimento,
  • la semplificazione come modalità intrinseca al metodo che però studia un mondo complesso di una complessità di secondo grado, cioè dove livelli diversi di complessità si intrecciano tra loro (ad esempio la complessità della persona incontra la complessità dell’ecosistema planetario in un contesto sociale anch’esso complesso)

Ebbene, se ricordiamo tutto questo, come è possibile emettere sentenze perentorie del tipo “è così e non si discute perché lo dice la scienza”, oppure “i risultati parlano chiaro”?

La cosa che più mi sconcerta è quella sorta di schizofrenia tra ciò che uno scienziato solitamente asserisce – cioè che la scienza non ha certezze assolute e procede grazie al dubbio e alla ricerca di prove – e l’atteggiamento effettivo di alcuni scienziati che rilasciano affermazioni perentorie come se fossero verità granitiche.

In teoria si dice che le acquisizioni scientifiche sono continuamente riformabili a partire da nuovi dati. In pratica però ci si attacca o al singolo ritrovamento assolutizzandolo oppure alla teoria vigente come data per ovvia ed indiscutibile. A quel punto, chi osa alzare la mano per fare domande e chiedere approfondimenti diventa semplicemente lo stupido che non capisce niente.

Temo che il rischio sia quello di perdere di vista la prospettiva temporale.
Le teorie in genere persistono per lungo tempo, considerate valide da più generazioni di scienziati che quindi si passano, da docente ad allievo. lo stesso quadro interpretativo. Le revisioni e gli aggiustamenti dei singoli risultati, invece, avvengono nel breve periodo: è la stessa coorte di scienziati che riarrangia i dati pur rimanendo sempre dentro lo stesso quadro interpretativo.

Il punto di rottura che produce la formulazione di una nuova teoria è l’esito di un accumulo di prove nel lungo periodo e quindi diventa esperienza diretta soltanto di una generazione ogni tanto. È un po’ come in un terremoto, prima i movimenti delle placche tettoniche, protraendosi per secoli o millenni, producono accumulo di energia per arrivare al momento del suo rilascio e sfociare nello sconvolgimento e nel riassestamento su altre configurazioni geologiche.

Pertanto, noi che usufruiamo delle scoperte scientifiche e delle loro applicazioni viviamo più probabilmente in presa diretta la comunicazione di risultati singoli piuttosto che il cambiamento di paradigma. Siamo perciò maggiormente esposti al rischio di scambiare affermazioni molto provvisorie per affermazioni perentorie perché la singola generazione tende ad accettare come dato di fatto il quadro interpretativo teorico.

Al contrario, le affermazioni del linguaggio scientifico possono essere soltanto: “sembra che”, “tendenzialmente”, “per quanto ne sappiamo finora” e soprattutto “non lo so“. Non è un caso che i papers finiscano sempre con una frase del tipo: “servono altre ricerche per capire meglio questo aspetto”. Ogni ricerca è un rilancio, mai un punto definitivo.

Forse dovremmo evitare di porre gli scienziati sul piedistallo della postazione privilegiata da cui si vede come gira il mondo, per avere invece attese più realistiche ed accogliere dai risultati degli esperimenti indicazioni di massima, tracce che guidino le scelte delle singole persone come delle istituzioni, senza irrigidimenti su aspetti specifici da far diventare verità dogmatiche.

Se il ricercatore scientifico fa affermazioni nette, in un atteggiamento di certezza, se noi che riceviamo questa comunicazione la assumiamo come verità incontrovertibile, se si prescrivono comportamenti perentori sulla base dei dati-verità incontrovertibili, cadiamo dentro un grande fraintendimento con esiti potenzialmente catastrofici.

Se si dispensano soluzioni certe, queste prima o poi dovranno per forza essere modificate, essendo questo l’inevitabile destino della conoscenza umana su basestorico- scientifica. Tali affermazioni però non potranno che essere interpretate dall’opinione pubblica come ritrattazione, minando la fiducia e screditando le successive affermazioni fatte “su base scientifica”.

Spesso infatti si sentono commenti del tipo “hanno cambiato idea” riferite ad affermazioni scientifiche. Un ambito particolarmente evidente è quello della nutrizione e le relative raccomandazioni dietetiche: negli anni Settanta gli zuccheri sono stati indicati come il grande nemico, poi è stata la volta dei grassi, il colesterolo il mostro da abbattere. Adesso va di moda coltivare il proprio microbioma.

La fatica, spesso elusa, è quella di comporre un quadro sempre più completo nella consapevolezza che non arriveremo a finirlo, perché i bordi del quadro si allargano man mano che lo dipingiamo. I personaggi si devono riposizionare, come in una danza, la coreografia è fluida.

Se uno scienziato può permettersi di dire tranquillamente “non lo so”, se noi del grande pubblico non abbiamo attese di certezze, allora la comunicazione e l’utilizzo dei risultati scientifici potranno essere più realistici e quindi utili.

Occorre molta più umiltà, saper offrire indicazioni, suggerimenti, riconoscendo alle persone la massima libertà nelle proprie scelte. Perché la vita poi è così straripante rispetto a ciò che ricaviamo dagli esperimenti scientifici che se ci fermiamo a quel livello, è come se confondessimo lo scheletro visto dalla radiografia per la persona.

Non sono quella traccia impressa sulla lastra, sono carne e sangue, anima e spirito, cultura e relazioni. Solo l’integrazione potrà guidarci, a livello sia personale sia istituzionale-collettivo, perché quei risultati scientifici possano avere un senso per la nostra umanità.

Autore: Iside Fontana

Laureata in Scienze Biologiche, cristiana, appassionata dell’interrogazione teologica e di tutto ciò che si cimenti nel tentare una sintesi del pensiero per una conoscenza profonda del mistero della vita. Single.

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