Lo so, detta così suona un po’ forte. Proviamo ad aggiungere un sottotitolo: esistono solo gli scienziati. Va meglio?
Spesso parliamo di “scienza”, “filosofia”, “medicina”, “arte” ecc. come se fossero entità dotate di vita propria. Va bene la metonimia, lo sappiamo, ne facciamo quotidianamente ampio uso. Tuttavia, ho l’impressione che questo nostro modo di esprimerci sia qualcosa di più di una semplice (si fa per dire) figura retorica.
Spesso si trovano frasi tipo: la scienza dimostra che…, secondo la scienza… Questa astrazione conferisce all’affermazione che segue un tono di autorità, come appunto se da un centro unitario e compatto emanasse una sentenza sicura e, a quel punto, indiscutibile. Così l’alone di oggettività si inspessisce.
Ma può essere davvero così?
Se passiamo dall’astrattezza del termine scienza alla concretezza del termine scienziato, nella nostra mente prende forma l’immagine di professionisti che usano il metodo scientifico come modalità di lavoro, per capire il funzionamento della realtà di cui siamo parte. Questi scienziati, in quanto persone, sono inevitabilmente immersi nel brodo di “cultura” in cui la vita umana soltanto può svolgersi.
La vita è porosa per definizione. Può accadere solo a partire da scambi, relazioni, intrecci. I compartimenti stagni sono proibiti, pena la morte.
E questo vale per tutti gli aspetti: non è solo una questione biologica, ma anche una caratteristica culturale. Non possiamo esistere se non dentro relazioni e scambi in una osmosi permanente, intrinseca alla condizione dell’essere vivi.
Quei professionisti, che non vivono in una bolla sigillata fuori dal mondo, portano con sé, nel loro lavoro, tutto se stessi, la loro storia, il loro contesto sociale di provenienza, le relazioni con chi finanzia la loro ricerca, le priorità che hanno negoziato con i loro superiori per sottoporre una domanda di grant, il loro stato emotivo complessivo, i loro bias cognitivi. Insomma, mettono in ciò che fanno ciò che essi sono, senza possibilità di dissociarsene. Esattamente come ogni essere umano.
La struttura sociale dominante in tutto il globo è ancora largamente dentro il modello maschilista patriarcale dove i centri del potere, nei più disparati settori, sono governati da “maschi bianchi di almeno mezza età”, per dirla con una terminologia che suona un po’ forense, da patologo legale, ma che rende l’idea. Questa struttura si riflette anche nel mondo della ricerca scientifica dove i ruoli ad alta valenza decisionale sono nella stragrande maggioranza ricoperti da “maschi bianchi di una certa età”.
Se questo è il tono dentro e fuori i laboratori, è chiaro che la ricerca di base (che dovrebbe essere la possibilità di espressione della curiosità umana, senza immediati fini di lucro), in realtà sarà poi ritagliata addosso alla curiosità “maschile, bianca e di una certa età”. La medicina di genere docet: le donne sono metodicamente escluse dai trials sperimentali perché, con troppi ormoni in circolo, renderebbero i risultati più difficili da maneggiare. Ma non si fa ricerca esattamente per raccogliere dati realistici e poi tradurli in pratiche utili alle persone in carne ed ossa che sono metà femmine e metà maschi?
Essere un medico donna, nera, africana, che vede la morte nella forma di Ebola, diarrea, malnutrizione, parassitosi ecc. certamente mette delle priorità nel suo desiderio di ricerca che sono ben altre da quelle del collega bianco statunitense che vede la morte nella forma del cancro e della demenza. Prima cioè di far intervenire gli interessi dei grandi gruppi del farmaco, qui intanto è questione di dove ci si trova geograficamente e socialmente sulla faccia della Terra. Certo la modalità relazionale porosa del nostro vivere implica anche essere consapevoli della pressione esercitata dai finanziatori delle ricerche alla caccia del maggior profitto, della pressione esercitata dai politici che spingono su ambiti più probabilmente in grado di far guadagnare voti che contano.
A questo riguardo, mi pare molto istruttivo l’articolo pubblicato su IlPost.it dal titolo “La scienza non è neutra”. In questo approfondimento si fa riferimento in particolare al rapporto tra scienza e politica/economia ovvero alle interconnessioni tra politici, CEO e azionisti delle grandi imprese e scienziati.
Prima di diventare una questione di interessi in ballo, però, è una questione di psicologia, di dinamiche di gruppo, di contesto culturale come l’antropologia culturale ci fa comprendere. Questo ben a monte del principio di Heisenberg.
Provare a vedere l’umanità complessiva di chi fa ricerca scientifica ci aiuta allora a riposizionare le affermazioni quando sono troppo nette, con pretesa di certezza e perciò di indiscutibilità.
E questo non è un difetto, ma appunto il modo in cui si dà il nostro vivere.
Perciò, mi pare sia tempo di riprendere in mano la serietà delle affermazioni scientifiche, e proprio perché serie, sempre da valutare nel loro carattere contingente e locale, temporaneo e incerto, sempre migliorabile da nuove ricerche.
Non si tratta ovviamente di additare un’inadeguatezza delle asserzioni scientifiche, né tanto meno di minare la portata delle scoperte e dei risultati ottenuti usando il metodo scientifico. Si tratta, a mio avviso, di saper contestualizzare queste scoperte e le conseguenti affermazioni, per ricavare una più realistica visione della realtà.
Scienziati più consapevoli in questa direzione sapranno meglio comunicare le loro scoperte e pretenderne un uso più adeguato.
Chi usufruisce dei benefici delle scoperte scientifiche sarà chiamato ad adeguare le proprie aspettative, non pretendere certezze e non scambiare l’incertezza per fallimento, ma riconoscerla come l’approssimazione che lascia spazio all’inedito, al nuovo, a ciò che è ancora da scoprire.
Grazie Iside, ci ricordi sempre che la Scienza (con al S maiuscola) è pur sempre “umana,
troppo umana”, per fortuna!
E ha a che fare col mistero dell’ uomo che solo x prove ed errori si può avvicinare alla verità …
Un caro saluto ???mcarla