Prosegue l’avventura dei nostri “audiopost”, sorta di podcast sperimentale di AltraScienza, che presentiamo – come nostra consuetudine – nella duplice veste di video e testo scritto, per maggiore comodità di fruizione.
Eccoci giunti alla terza ed ultima puntata.
La domanda sullo sfondo, ma anche in primo piano, in questo piccolo percorso è: chi è l’uomo? Una domanda non da poco, insomma.
Per addentrarci in questi territori da una prospettiva poco esplorata, ci stiamo facendo provocare dalla ricerca di Francesco Massobrio come presentata in “Il cristianesimo alla prova del racconto evolutivo – un confronto critico necessario” (Mimesis 2018).
Il giovane teologo mette in evidenza come la metafisica cristiana, ancora attualmente espressa dalla teologia naturale, non abbia più categorie all’altezza delle scoperte scientifiche sulla vita e sull’uomo (come abbiamo mostrato nel primo audiopost).
Nel frattempo, la teologia del Novecento ha tentato di rinnovare la sua antropologia e la sua teologia fondamentale, ma prendere sul serio lo studio scientifico del mondo significa confrontarsi in modo critico con chi ha scelto di rimanere (ostinatamente, ma istruttivamente) nel campo delle scienze. Così Massobrio ha individuato nel naturalismo filosofico, e in Telmo Pievani in particolare, il riferimento di partenza per la sua analisi (vedi secondo audiopost).
Veniamo da una lunga storia naturale dove le specie dei viventi si generano, inaspettate ed uniche, per evoluzione. Anche l’uomo ha questa origine dal basso e proprio qui, nella concretezza della sua forma, emerge però la sua singolarità. Mentre nella natura non umana l’evoluzione è stata di tipo quantitativo, con l’uomo lo scarto si fa qualitativo.
È possibile introdurre questo cambiamento di criterio e rimanere ancora dentro il racconto evolutivo? Massobrio pensa di sì, chiamando in causa il naturalismo filosofico di Pievani esattamente dal suo interno, cioè dal suo principio ermeneutico dell’inatteso. Questo significa che ogni specie che evolve e compare sulla Terra può soltanto essere riconosciuta nel momento in cui appare, non ci sono segni premonitori, non ci sono cartelli stradali che ne puntino la meta. La vita crea senza schemi fissi, prefissati, ma ci sorprende con l’inedito: possiamo solo prenderne atto e dichiararla. Anche noi siamo arrivati così.
Per quanto ne capiamo, Homo sapiens è però l’unico vivente ad essere cosciente di essere cosciente, a riconoscersi come libero e a porsi la domanda morale. Questi tratti sono inediti, tipicamente umani. Non solo. Esseri umani di ogni cultura fanno esperienza di un legame con la Trascendenza confessata a fondamento proprio del loro essere liberi e morali. Tutto questo è possibile per la modalità che la dimensione culturale ha assunto nell’essere umano.
A questo punto però occorre ammettere lo scarto qualitativo tra Homo sapiens e le altre specie viventi. La sfida di Massobrio si esplica precisamente qui: stare dentro il racconto evolutivo, assumerne completamente il principio ermeneutico dell’inatteso e portarlo nell’umano tutto intero.
Applicare il principio ermeneutico dell’inatteso alla dimensione culturale umana, quella in cui si sviluppa la spiritualità, vuol dire affermare che la natura sia in grado di far emergere la novità anche nella dimensione culturale. Per Homo sapiens l’aspetto culturale-spirituale emerge come sorpresa insieme all’altrettanto sorprendente autocoscienza. E ciò accade non per gradualità quantitativa, in una sorta di potenziamento di capacità che già vediamo nel mondo animale e con particolare riguardo nelle scimmie antropomorfe. Accade invece come eccedenza qualitativa, anch’essa da ricercare nella dinamica dell’evoluzione della vita sulla Terra perché è questa la modalità ordinaria di procedere della vita. La co-originalità della dimensione biologico-quantitativa e di quella culturale-spirituale-qualitativa che si influenzano vicendevolmente fin dal principio di ogni storia umana rende ragione della singolarità dell’essere umano.
Qui si evidenzia però la fatica di Pievani e del naturalismo filosofico ad accettare il senso religioso dell’uomo, come tratto realistico dell’esperienza umana. Infatti, contrariamente ad ogni altra espressione culturale, il legame con la Trascendenza viene sbrigativamente dismesso come illusorio.
Si sa che il punto è dolente per il naturalismo filosofico, ogni anche solo vago odore di divino fa saltare sulla sedia e gridare all’illusione. D’altro canto, anche il cristianesimo storico ha i suoi mea culpa da ammettere.
Ricostruire legami tranciati non è impresa facile.
Tuttavia è qui, nel punto dolente, che il confronto si fa serio.
Leggendola in questa prospettiva, la spiritualità umana, il senso religioso, emergono dalla storia, secondo le dinamiche evolutive, come l’inatteso che abilità l’uomo al legame con la Trascendenza.
Qui dobbiamo però registrare un altro crollo, che si aggiunge a quelli già indicati nell’audiopost precedente: l’astratta distinzione tradizionalistica tra naturale e soprannaturale, cioè la spaccatura dualistica della realtà. Siamo figli della Terra, nati dal basso, per il movimento auto-organizzativo della realtà storica, l’unica che conosciamo.
Esattamente dentro quest’unica realtà emerge l’autocoscienza: essa ci rende capaci di sentire in noi un’ingiunzione alla giustizia che assume l’aspetto della “voce della coscienza” , dove la mia coscienza ascolta una voce altra, che la attrae verso il giusto, il bello, il vero. Gli uomini nella storia hanno assegnato nomi diversi a questa esperienza del sacro. Per i cristiani che hanno deciso di dare credito alla vicenda di Gesù di Nazareth come volto di Dio finalmente svelato e come compimento dell’umano, quel richiamo attraente è lo Spirito che grida Abbà nei nostri cuori (Gal 4,6).
Dio nessuno lo ha visto mai, ci ricorda Giovanni (Gv 1,18), il Figlio ce lo ha rivelato nel proprio volto (Gv 14,8-9).
Pertanto, la realizzazione della nostra umanità può avvenire soltanto dentro la concretezza delle nostre vite. Non sono ammesse fughe spiritualistiche. La nostra dualità natura-cultura/spirito non è dualismo, è ontologicamente originaria secondo le dinamiche insite nella concretezza da cui emergiamo. Non ci sono anime preesistenti che calano dall’alto dentro corpi un po’ stretti. Non c’è un destino tracciato nella notte dei tempi, in contumacia, a nostra insaputa, ma l’amorevolezza di una destinazione alla vita piena secondo la promessa del Dio affidabile.
La vicenda di Gesù di Nazareth ci mostra una relazione con la Trascendenza così forte da permetterci di attraversare la realtà incerta e imprevedibile, fatta di eventi che ci si presentano come occasionali, non pianificati, spesso drammatici. Quella Trascendenza, nella fede del Figlio, ha i lineamenti rassicuranti dell’Abbà che manterrà la promessa attraente di una vita buona, bella e giusta.
La creazione dunque non è un atto esterno di un Dio che sta altrove, ma lo svolgimento storico ed inatteso di una realtà spesso dura e dolorosa dove però in ognuno di noi risuona l’eco benedicente di un Dio fedele che si affida alla libertà umana per una relazione davvero vitale e sempre sorprendente, anche per Lui. Nell’uomo cioè Dio trova finalmente un interlocutore all’altezza, nella relazione gli dà forma (umana), e lo riconosce come immagine di Sé, figlio.
Quest tentativo – lodevole – di conciliate Telmo Pievani (ovviamente uso questo nome citato nell’articolo solo per indicare il neodarwinismo “duro e puro”) con una visione religiosa come quella cristiana, secondo me è una battaglia persa in partenza. Forse il nome più giusto da citare sarebbe quello di Monod, che ha espresso con chiarezza cartesiana questa filosofia della natura nel suo celebre “Il caso e la necessità”, sintesi del neodarwinismo. Perché il neodarwinismo nega non solo la trascendenza ma qualsiasi realtà spirituale. Cerco di spiegare questo mio punto di vista. La filosofia naturale di Pievani, di Monod e di tutti i neodarwinisti (che si può chiamare più semplicemente chiamare materialismo o se si vuole fisicismo) attribuisce la creatività – della vita, del pensiero e della coscienza – “alla necessità” (cioè leggi fisiche necessitanti, prive di qualsiasi grado di libertà) e al “caso”, totalmente privo di “progettualità”, ma apparentemente “libero”. In definitiva dunque in quest’ottica la creatività non può evidentemente essere attribuita alla necessità, ma solo al “caso”: in sostanza al nulla. Il nulla che crea l’essere; il non-pensiero che crea il pensiero; la non-coscienza che crea la coscienza; il non-finalismo che crea il finalismo. Insomma fede cieca nel nulla “creatore del cielo e della terra”; il caso-nulla al posto di Dio. E allora come si può pensare di conciliare questa posizione filosofica con una fede, come quella cristiana, che crede in Dio (trascendente, ma fosse anche pensato immanente le cose non cambierebbero) e nel suo Spirito “che è Signore e dà la vita”? Vorrei che qualcuno me lo spiegasse.
Ciao Oreste! La questione che poni è certamente molto pertinente e… monumentale insieme.
Il mio è stato un consapevolmente piccolo tentativo di contattare il pensiero di questo teologo che sta cercando di cambiare punto prospettico. Infatti, qui si tratta proprio di uscire dalle dinamiche dualistiche cui siamo abituati. La sfida di Massobrio è appunto quella di proporre una visione duale ma non dualistica del reale, dove l’uomo è co-originariamente natura e cultura/spirito, una dualità che si mostra nel suo intreccio inestricabile.
Mi rendo conto che detta così vuol dire poco o nulla, ma la materia è complessa. L’unica cosa seria che mi sento di consigliare è la lettura del libro di Francesco Massobrio, “Il cristianesimo alla prova del racconto evolutivo” (Mimesis 2018) dove si può seguire l’intero ragionamento dell’autore e il dipanarsi del suo pensiero, uno dei pochissimi tentativi originali attualmente disponibili in questo ambito.
iside