Dall’intelligenza artificiale al pensiero sensibile

È sotto gli occhi di tutti l’enorme avanzata dell’Intelligenza Artificiale. Siamo ben al di là dei successi ottenuti in passato, quando fece scalpore il sistema DeepBlue sconfiggendo il campione del mondo di scacchi, Garry Kasparov, nel 1996.

Oggi i sistemi di Intelligenza Artificiale, le macchine calcolanti, come le definiva Alan Turing, padre dell’informatica, sono in grado di svolgere un’enorme quantità di attività che ritenevamo di pertinenza esclusiva dell’essere umano. Riescono a riconoscere oggetti presenti in una immagine, a riconoscere i volti dei nostri amici nelle foto che carichiamo su Facebook, ancor prima di taggarli. Sono in grado di tradurre da una lingua all’altra con una accuratezza sempre maggiore. Riescono perfino a leggere il labiale e a sembrare, se non veri artisti, almeno loro allievi, riuscendo a produrre opere pittoriche sullo stile di Kandinsky e composizioni musicali sullo stile di Bach, che, come qualcuno ha osservato, l’umano “intelligente” vende e l’umano “stupido” compra. Come è accaduto il 25 ottobre 2018, quando il quadro intitolato Il ritratto di Edmond Belamy, prodotto da un sistema di Intelligenza Artificiale, è stato venduto all’asta per 432 mila dollari.

Ma come è possibile che un calcolatore riesca a raggiungere tali risultati, che potrebbero sembrare a molti come magie, miracoli o espressioni di autoconsapevolezza? Quali sono le tecniche che sono alla base degli attuali sistemi di Intelligenza Artificiale? Possiamo identificare due grandi approcci, quello basato sul “ragionamento logico” (Machine reasoning) e quello basato sull’“apprendimento” (Machine learning).

Il primo si basa principalmente sugli studi della logica deduttiva, permettendo di dedurre nuova conoscenza a partire da precedenti conoscenze e fatti noti, secondo le regole della logica, come ad esempio nel classico sillogismo aristotelico, dove la conoscenza di una premessa generale (“Tutti gli uomini sono mortali”) e di una premessa particolare (“Socrate è un uomo”) permette di ottenere nuova conoscenza, inferendo una conclusione (“Socrate è mortale”). Un sistema basato sul “ragionamento logico” sarà molto utile ad esempio per svolgere attività di pianificazione, come ad esempio organizzare l’orario scolastico per le diverse classi di una scuola.

La seconda tecnica, quella dell’apprendimento, procede invece attraverso il metodo induttivo e statistico. L’obiettivo è di fare delle previsioni con sempre maggiore accuratezza. Si osservano dei fatti particolari, un insieme di dati, come ad esempio le immagini di gatti, in modo da individuare qualcosa in comune a tutte le immagini osservate, ad esempio le proporzioni tra la distanza tra gli occhi e il raggio della testa. In tal modo, sarà possibile, data una nuova immagine, determinare se in essa è presente un gatto oppure no. Attualmente, esistono tecniche di apprendimento avanzato, note come “apprendimento profondo con rinforzo” (Deep Reinforcement Learning), che permettono ad un sistema di Intelligenza Artificiale di attuare strategie di vittoria nei classici videogiochi dell’Atari, senza alcuna conoscenza iniziale delle regole del gioco.

Proviamo ad andare ancor più in profondità. Su cosa si fondano le tecniche che abbiamo descritto? Esse altro non sono che implementazioni di algoritmi, ovvero di procedure non ambigue che permettono di procedere passo dopo passo alla risoluzione del problema. Se mi trovo ad un certo passo, sotto specifiche condizioni, so con assoluta certezza a quale passo successivo procedere. La nozione intuitiva di algoritmo è molto semplice, ha ormai più di un millennio dalla sua prima descrizione ad opera del matematico persiano al-Khwarizmi (se provate a pronunciare il suo nome, non è casuale l’associazione mentale che farete). Ma abbiamo dovuto attendere circa un millennio per ottenere una formulazione logico-matematica di tale nozione, quando Alan Turing nel 1936 definì rigorosamente tale concetto, introducendo ciò che lui chiamava “macchina automatica” e che, in seguito, sarà chiamata “macchina di Turing”. Tutto ciò che avviene e potrà mai avvenire in un computer è fattibile attraverso una macchina di Turing, ovvero tramite qualcosa che abita il mondo della logica matematica. Si tratta di un mondo molto particolare e, per certi aspetti, sorprendente.

Kurt Gödel è comunemente riconosciuto uno dei più grandi logici mai esistiti, considerato da alcuni alla pari o addirittura superiore allo stesso Aristotele, il primo a sistematizzare le conoscenze antiche sulla logica. Prima di Gödel si credeva che la matematica fosse in grado di dimostrare rigorosamente qualsiasi verità astratta e non solo, si pensava che per ogni formula espressa secondo il linguaggio della logica (del primo ordine) si potesse identificare una procedura meccanica per determinare se l’enunciato matematico fosse vero oppure falso (meglio, deducibile esso stesso o deducibile la sua negazione) all’interno del sistema logico (quello dei Principia Mathematica di Whitehead e Russell).

Bene, anzi male, almeno per alcuni, perché Gödel scopre che le cose non stanno così. Qualsiasi sistema logico che vuole esprimere i numeri naturali (l’aritmetica), conterrà sempre al suo interno degli enunciati che sono “indecidibili”, ovvero non potremo mai sapere se sono veri o falsi all’interno del sistema logico-matematico (noto come Primo Teorema di Incompletezza). Ma non solo, lo stesso sistema logico non potrà mai dimostrare di essere coerente: non sapremo mai se al suo interno potranno un giorno emergere contraddizioni, che invaliderebbero tutto l’apparato costruito (noto come Secondo Teorema di Incompletezza). Verrà da chiedersi cosa c’entri questo discorso con l’Intelligenza Artificiale. Ritorniamo allora a Turing. Egli proprio mentre definiva la nozione di algoritmo, mostrava, nello stesso articolo, l’esistenza di problemi che nessun algoritmo potrebbe mai risolvere: problemi indecidibili.

Riassumiamo il discorso fatto finora: l’Intelligenza Artificiale si basa principalmente sulle tecniche di ragionamento e di apprendimento; qualsiasi tecnica che potrà mai attuarsi, non sarà altro che un algoritmo, ovvero una macchina di Turing; ogni macchina di Turing sottostà alla logica matematica.

Dunque l’Intelligenza Artificiale sottostà alla logica matematica: non è altro che logica matematica applicata. Allora l’unica forma di ragionamento consentito ad una Intelligenza Artificiale sarà quella del ragionamento logico-matematico. È questa l’unica forma di razionalità per un calcolatore.

La domanda che si impone dunque non è se una macchina possa pensare come un uomo, ma se il pensiero umano non sia niente altro che calcolo. Sappiamo tutti che non è così. Ma cerchiamo di capire perché non può esserlo. La razionalità del calcolatore è quella del razionalismo asettico e freddo, che ha caratterizzato la nostra cultura e filosofia occidentale, attraverso lo sviluppo di un pensiero rappresentativo e oggettivante, che oggi ritroviamo nelle strutture insopportabili di una società in cui il fondamento latente è illusorio ed è posto proprio in una estrema ricerca di ottimizzazione, di efficienza e di profitto.

Tuttavia sta gradualmente emergendo una consapevolezza di un pensiero oltre il calcolo, quello che il filosofo tedesco Heidegger definiva come “pensiero meditante”, dove il pensare (Denken), a cui la scienza non può pervenire con il suo approccio metodologico ed epistemico, ha a che fare con il ringraziare (Danken) [1].

Si va sempre più attestando una liceità alla ragionevolezza, intesa come richiesta di un senso globale del vivere, che non si qualifica come illogica o irrazionale, ma piuttosto come meta-logica, come possibilità che il Meta-razionale o l’Ulteriorità, propria di ogni esperienza religiosa, incroci in qualche modo l’uomo e la sua ragione. Il sociologo Ferrarotti ritiene che tale ragionevolezza «sembra affermare che l’uomo trova e troverà sempre forza per non rassegnarsi alla mera razionalità formale, quella del calcolo, della macchina e della burocrazia, che ne schiaccerebbe tutte le speranze» [2].

Si tratta, come sostiene lo storico del cristianesimo Giancarlo Gaeta di iniziare a «pensare sensibilmente» [3], come hanno mostrato i grandi testimoni delle sofferenze immani generate dai regimi totalitari del secolo scorso: da Walter Benjamin che vuole che «le cose si rivelino nel loro intimo significato» nella presenza di una «debole forza messianica» che pervade la storia [4], a Etty Hillesum, che riscopre il cuore come organo di un pensare più profondo, che può permettere una comprensione e un senso anche a contatto con eventi drammatici e terribili [5].

Ne parla Leonardo Boff in merito all’emergenza della questione ecologica, che non può essere affrontata restando nell’abito del razionalismo moderno, incentrato sulla logica, ma necessita una proposta alternativa «fundada num outro tipo de racionalidade, naquela cordial e sensível» [6]. Una tale “ragione cordiale” ha a che fare con gli affetti, i sogni e le utopie che orientano la vita e danno speranza all’esistere umano, fino a ribaltare il paradigma cartesiano del «cogito, ergo sum» in quello del «sentio, ergo sum» [7].

Per fare ciò, occorre ritornare alle intuizioni originarie dell’oltrepassamento del pensare asettico per non ricadere nelle astratte elucubrazioni apatiche e insensibili, come ricorda Marco Guzzi: «Finora l’uomo ha esercitato un’astrazione intellettuale attraverso una contestuale separazione dal proprio corpo emozionato. Il pensiero doveva essere spassionato, tanto più quello scientifico, che è figlio del pensiero filosofico. Oggi invece vorrei proporvi un pensiero appassionato, un pensiero che resti nella passione, e non si separi mai dalla passione della trasformazione in atto» [8].

La sensibilità che connota il pensiero umano, va al di là del sentire fisico-corporeo e del sentire emotivo-romantico, ma giunge a pienezza quando si riconosce come sensibilità per il senso, quella sensibilità che è propria dello spirito e non soltanto del corpo. A questo livello si ha a che fare con una ragione all’altezza dell’umano e dell’esperienza umana della realtà: una ratio hominis digna [9]. Non ritrovare la profondità di questo pensiero significa continuare a consegnare la conoscenza della realtà e dell’uomo a forme di razionalità inadeguate a comprendere il senso della vita umana.

Se tutto ciò è valido per la riflessione filosofica umana, ancor più lo sarà per la riflessione teologica, chiamata anch’essa ad uscire dall’ambito, non solo logico-deduttivo, ma da quello più generalmente inferenziale e intellettuale, in quanto «si fa teologia non solo leggendo dentro (intelligere da intus legere), ma amando dal di dentro (intus amat): amando l’uomo e il suo mistero, e con ciò amandone fedelmente (verità è fedeltà) la sua provenienza e il suo fine» [10].

Un pensiero sensibile si trova sull’oltre,
giunge in territori inesplorabili dalla razionalità calcolante e oggettivante,
scopre uno spazio profondamente unitivo,
al di là delle separazioni e distinzioni concettuali,
dove l’intelligenza diventa insensibile nella sua meccanicità,
capace del bene come del male.
Ma in principio non era così:
chi è intelligente non può fare il male,
lo sapeva Socrate criticato di intellettualismo etico,
lo sapeva Giobbe: «evitare il male, questo è intelligenza» (Gb, 28,28),
perché c’è un pensiero più alto,
quello della grande ragione della carne,
che Nietzsche ha veduto
come da lontano Giosuè:
l’Incarnazione del Logos,
dove la trasformazione è viva
e ogni gnosticismo è abolito:
«Chi non ama non ha conosciuto Dio,
perché Dio è amore» (1Gv 4,8)

Note al testo.

[1] Cf M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1971.

[2] F. Ferrarotti, Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983, 118.

[3] Cf G. Gaeta, Religione del nostro tempo, Edizioni E/O, Roma 1999.

[4] Cf W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, 1997, 23.

[5] Cf E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990, 45.

[6] L. Boff, «A busca de um ethos planetario», Perspectiva Teologica 40 (2008), 175.

[7] L. Boff, «A busca de um ethos planetario», Perspectiva Teologica 40 (2008), 176.

[8] M. Guzzi, L’insurrezione dell’umanità nascente, Paoline, Milano 2015, 30.

[9] P. Sequeri, Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica, Queriniana, Brescia 2016.

[10] G. Mazzillo, «Teologia ed esperienza. La verità chiede di farsi storia», Relazione per l’associazione teologica di Noto, 11 Marzo 2011, consultabile al seguente link: http://www.puntopace.net/VARIE/VeritaEsperienza.pdf.

Autore: Giovanni Amendola

Matematico e Teologo. Ricercatore in Intelligenza Artificiale e docente di Informatica, Probabilità e Statistica. Studioso e appassionato dei rapporti tra scienza, fede e vita, in continua tensione per pensare sensibilmente. Marito.

7 pensieri riguardo “Dall’intelligenza artificiale al pensiero sensibile”

  1. ​Un caloroso benvenuto a Giovanni nel nostro blog: ci fa molto piacere ospitarne i suoi interessanti scritti. Un mio breve commento:

    La domanda che si impone dunque non è se una macchina possa pensare come un uomo, ma se il pensiero umano non sia niente altro che calcolo.

    E’ il famoso problema della “stanza cinese
    che non mi metto qui a spiegare, rimandando ai link relativi.

    La tesi secondo cui il sistema-stanza “saprebbe” il cinese parte dall’assunzione che se due sistemi “si comportano” allo stesso modo, “sono” la stessa cosa. C’è un collasso fra comportamento esteriore e essenza interiore, che non ha un vero fondamento.

    Affermerei piuttosto che nonostante vi sono ottimi programmi che riescono a simulare alcuni processi tipicamente umani, anche con discreti e sorprendenti risultati, dimostra soltanto una cosa: che quei problemi possono essere risolti con approcci differenti (mente umana vs IA); non vuol dire che le entità che lo fanno sono la stessa cosa.

    Sarebbe come affermare che siccome potrei andare su Marte o con un razzo a propellente oppure con le vele solari allora questi due metodi sono la stessa cosa: evidentemente no, nonostante possono ottenere il medesimo risultato. Non appena però iniziamo ad aggiungere vincoli (per esempio i tempi di percorrenza) ci accorgiamo che i metodi non sono poi la stessa cosa: le vele solari impiegherebbero molto più tempo e sono ancora una tecnologia esotica e non sperimentata mentre il razzo ci porterebbe con affidabilità e tempi certi. Non “sono” dunque la stessa cosa.

    Similmente la mente umana e IA possono apparire ad una prima approssimazione equivalenti perché a un certo livello di comportamento possono apparire indistinguibili, ma cosa accade “non appena” iniziamo ad aggiungere requisiti diversi? Per esempio proprio le parole di Giobbe «evitare il male, questo è intelligenza» e mi fermo qui per non ripetermi rispetto all’ottimo post di Giovanni.

    La ricerca sulla AI ci aiuterà senz’altro a capire meglio la mente umana perché ci aiuterà a capire senz’altro cosa NON è: è proprio, mi pare, quel pensiero sensibile di cui si è accennato. Il riduzionista di turno potrebbe obiettare: “aspetta e vedrai” ma è solo perché ha fatto una scelta a-prioristica per cui due sistemi, appunto, che si comportano allo stesso modo “sono” la stessa cosa. Eppure sono certo che anche il riduzionista più incallito quando si fa una doccia, quando ama, quando spera, quando mangia, quando accarezza un figlio, non si sente come una scheda di transistor e silicio alimentata a 5 volt e abilmente programmata da qualcuno.

  2. Caro Fabrizio, grazie a te e a Marco per l’invito.
    Il commento che hai rilasciato mi trova perfettamente d’accordo.
    Un ulteriore elemento che allontana sempre più qualsiasi macchina dall’uomo e qualsiasi “intelligenza artificiale” dal pensare umano, in modo da riconnettere il “software” con l'”hardware”, al di là di una riproposizione dualistica nella progettazione delle macchine, sta nella dimensione OLISTICA dell’essere umano.
    L’uomo, nella sua totalità ed unicità, non può concepirsi come somma dei suoi componenti di base, delle sue parti. Un computer invece si. Un computer può essere smontato e rimontato continuando a funzionare, mentre un essere vivente, una cellula, no.
    I riduzionisti pensano che dallo studio delle singole parti si possa giungere al tutto. Mentre il tutto, l’unità, resta molto al di là di quanto una scienza riduzionistica voglia farci credere.
    Alcune riflessioni a riguardo sono state proposte da Federico Faggin, l’inventore del microprocessore, che recentemente sta provando a sviluppare una “nuova scienza della consapevolezza”, secondo cui la coscienza non può essere concepita come un epifenomeno della materia, ma come un suo costituente essenziale. La fisica finora ha indagato col metodo scientifico la realtà esteriore, fatta di materia e di informazioni, ma non è riuscita a dire nulla sulla realtà che ciascuno di noi sperimenta interiormente, fatta di “sentire”, di significati, di comprensione e di consapevolezza. Se questa coscienza è imperscrutabile a partire dalla materia, secondo Faggin, è perché essa ne è in qualche modo alla base, a fondamento, per questo propone, quella che chiama “Unità di Consapevolezza” di cui sarebbero dotati gli stessi campi quantistici.
    Mi permetto di rimandare al suo recente libro biografico che si intitola Silicio, di cui riporto un breve passo, dove Faggin spiega che questa intuizione nasce da esperienze personali e in particolare da una sua esperienza mistica:
    «Quest’esperienza conteneva una forza di verità maggiore di ogni altra che avessi mai avuto prima, perché ciò che provavo era vero a tutti i livelli del mio essere. A livello fisico il mio corpo era vivo e vibrante come non l’avevo mai sperimentato prima; a livello emotivo ero un’impossibile e potente sorgente d’amore; a livello mentale comprendevo con certezza e per la prima volta che tutto è “fatto” d’amore. E infine avevo scoperto per la prima volta l’esistenza di un ulteriore livello: quello spirituale, in cui io ero tutt’uno con il mondo».

  3. Caro Giovanni,

    prima di tutto ti faccio i miei sinceri complimenti per questo pezzo, veramente così denso che sarebbe da espandere in tante direzioni, tutte utili! Estraggo qui solo un punto che mi sta particolarmente a cuore, ovvero dove tu doverosamente avverti

    “La razionalità del calcolatore è quella del razionalismo asettico e freddo, che ha caratterizzato la nostra cultura e filosofia occidentale, attraverso lo sviluppo di un pensiero rappresentativo e oggettivante, che oggi ritroviamo nelle strutture insopportabili di una società in cui il fondamento latente è illusorio ed è posto proprio in una estrema ricerca di ottimizzazione, di efficienza e di profitto.”

    Mi pare molto interessante e importante questo specifico punto. La distinzione tra conoscenza oggettivante e pensiero empatico che “vive” con quello che conosce, è spesso persa, a favore di una nozione di conoscenza che è puramente intellettuale, funzionale in ultima analisi – come fai ben capire – ad un distacco dalle cose e dunque in ultima analisi ad una logica dominio/sottomissione, e mai “compromissione” in senso fecondo.

    Questo, come sappiamo bene (proprio da lavori come quelli di Boff) ha generato nel tempo intere cosmologie “errate”, con conseguenze a breve e lungo termine non certo positive. Dunque, il cammino per recuperare una nozione di conoscenza “completa” che implichi una sana compromissione con il dato indagato (si potrebbe ovviamente scomodare con qualche significato qui la meccanica quantistica), è un cammino certamente lungo e delicato, ma necessario.

    Cammino per il quale, devo dire, dei segni importanti si iniziano a trovare: in questo senso iniziative come quella alla quale ho avuto la fortuna di assistere, L’universo e noi (organizzata dal mio ente, L’Istituto Nazionale di Astrofisica, in comunione con il Vicariato di Roma), mi sembrano molto preziose al fine di iniziare a recuperare un significato più umano (e necessariamente multidisciplinare) di approccio alla conoscenza.

    https://twitter.com/laltrascienza/status/1142081230973919237

    La mia domanda in quel contesto, non troppo stranamente, verteva proprio su conoscenza razionale ed “emotiva”, e le belle risposte ottenute aprono ancora di più la strada ad una verifica personale quanto mai urgente, vissuta, “patita”, di questo nuovo sentire.

    Giustamente Guzzi nel manuale “Darsi Pace”, intitola il primo paragrafo con la frase “Ripartire dalle emozioni”. Tre parole che abbiamo la fortuna di poter esplorare, per una rivoluzione copernicana del nostro modo di sentire il mondo, e i rapporti tra gli uomini.

    Grazie!

  4. Il “pensiero appassionato” e la “sensibilità per il senso” mi sembrano due espressioni molto efficaci di dire che abbiamo bisogno di vivere in modo più ampio, con il sapore di ogni cellula, senza che nessuna vada perduta.
    Il rischio di una razionalità interpretata ancora troppo nella direzione della sola logica è che ci perdiamo delle bellissime occasioni di vita.
    Abbiamo bisogno di imparare ad accomodarci nella nostra umanità. Pare che finora siamo riusciti a prenderci solo per pezzetti, un po’ come la proverbiale coperta corta tirata da bordi opposti: o sento o penso. La sfida che abbiamo è quella di rifare la coperta, prendere misure più larghe, includere l’umano tutto intero, non pensare di poter fare a meno di ciò che una certa tradizione filosofico-teologica e scientifica ha deciso essere di minor valore. Riappropriarsi dell’umano nella sua interezza, ripartire umilmente a guardarci di nuovo da capo, senza disprezzare nulla, valorizzando tutto affinché Homo sapiens, proprio nel suo essere Homo sapiens, impari a riconoscersi come Imago Dei, nella sintesi unica che è appunto l’essere umano.
    iside

  5. Cari Marco e Iside,

    mi fa davvero piacere leggere i vostri commenti e le vostre profonde riflessioni, che certamente provengono e sono frutto proprio di una tensione verso un pensiero sensibile.

    Condivido appieno con Marco il bisogno di far sì che le scienze inizino, anch’esse, a pensare sensibilmente, senza trovare vanamente il loro punto di forza nell’inutile pretesa di annullare il Mistero, nel quale esse stesse sono immerse e dove, in realtà, trovano o dovrebbero trovare proprio quell’energia di perenne novità, che nutre la stessa ricerca.
    Caro Marco, davvero molto bello il tuo contributo, che ho letto con grande interesse, sul re-incantamento del mondo.

    Si, cara Iside, ritrovare il nostro essere Imago Dei è ritrovare quell’unità e integrità di cui, quando il silenzio ci avvolge, avvertiamo un insopprimibile richiamo, quello della nostra più autentica vocazione: essere uno, essere amore. Per questo ritengo che la “sensibilità per il senso”, quando è autentica, diviene “sensibilità per la sofferenza”, per tutto ciò che è lacerazione e divisione, contrapponendosi alla chiamata più profonda ad essere amore. Il pensiero sensibile diventa così un pensiero creativo, in quanto ri-crea continuamente il mondo, partecipa alla continua creazione di Dio, co-crea “i nuovi cieli e la nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13).

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