Per essere davvero inclusivi abbiamo bisogno di nuove metafore
“Ma sei cieco? Non vedi che ti stai cacciando nei guai?” che è poi come dire “ma sei stupido?”. “Sì, sono cieco, ma lo sono per davvero.”
“Sei completamente sordo a ogni mia richiesta di aiuto!”: che lascia intendere che essere sordi abbia una valenza moralmente deprecabile.
Le metafore si formano nella mente a partire dal mondo che abitiamo, ma poi ci restituiscono il mondo attraverso l’interpretazione che ne facciamo proprio grazie a loro. La metafora forgia il nostro pensiero, ci dà un’ermeneutica del mondo.
La Nuova Umanità, per essere davvero nuova, ha allora bisogno anche di trovare nuove metafore, pena il rimanere invischiata nelle usuali chiavi interpretative del vecchio Io.
Uno di questi cambiamenti che, da diretta interessata, mi pare urga in modo pressante è l’abbandono delle metafore della disabilità come lettura dell’ignoranza e della perversione morale. Non ho proposte, ma sento una stonatura sempre più stridente, nel consueto modo di guardare alla realtà proposto da queste ordinarie metafore – che, inizio a vergognarmi un po’, mi rendo conto, uso pure io.
Apostrofiamo una persona come cieca o sorda per dire che è ignorante, che non capisce, che è incapace. Diciamo allo studente che “zoppica in filosofia” per dire che la sua preparazione è insufficiente. Se riusciamo solo a “balbettare” una nuova idea, sottolineiamo la nostra insicurezza e la confusione per la tematica abbozzata.
Gesù però ci mette in guardia: dire pazzo ad un fratello è ucciderlo (Mt 5,21-22). Eppure, distribuiamo con disinvoltura appellativi di malato mentale a chiunque si discosti dai nostri rassicuranti schemi.
Un conto infatti è l’uso della malattia come metafora. Ad esempio se dico che un certo comportamento criminale è un cancro che devasta il tessuto sociale, il collegamento è con la malattia che distrugge. La malattia infatti è parte di un quadro di male che ci interpella severamente e chiede soltanto di essere guarita. La liberazione dal male è ciò cui agogniamo tutti intensamente.
Un altro conto invece è attaccare il sintomo alla persona, fare di tutta l’erba un fascio e così leggere la cecità come ignoranza. Ma dall’ignoranza ci si può emancipare, dalla cecità fisica no. È confonderla con ciò che invece può essere riplasmato mediante un percorso di consapevolezza e una presa di responsabilità di una comunità che si muova verso la realizzazione di un’umanità sempre più strutturata e vera.
L’uso di queste metafore lascia intendere che la persona con disabilità sia rotta, non funzionante, difettosa, sbagliata, peccatrice. La progressione è difficile da evitare in un clima a giudizio altissimo (della morale bigotta o consumistica fa poca differenza) come quello costituitosi nei millenni di storia umana.
Temo che qui si annidi un’interpretazione dell’umano che ha un’unica forma possibile, come se ci fosse un unico stampo perfetto metro e misura di tutti gli umani. Barbie e Big Jim vanno benissimo, con “tutto al posto giusto”, come cantavano i Nomadi, e se ci si discosta anche solo di una deviazione standard si grida all’orrore. Il fatto è che disabilità e malattia non sono sinonimi, anche se si tende a considerarli intercambiabili. La disabilità è funzione dell’accoglienza dell’ambiente in cui si vive: se l’ambiente (relazionale innanzitutto) è poco flessibile e non si adatta, o lo fa poco, al modo proprio che ciascuno ha di stare al mondo, la disabilità aumenta vertiginosamente. Se ad esempio i segnali sonori o visivi non sono tradotti e convogliati su un altro canale sensoriale in modo che la persona li possa decodificare, quei segnali resteranno ignoti, il messaggio non trasmesso e la persona diventerà disabile, non abile a stare in quel mondo.
Sappiamo che stiamo attraversando un tempo estremo, dove le donne e gli uomini possono avere prospettive di sopravvivenza soltanto a partire da improcrastinabili rivoluzioni radicali del loro vivere, che riguardano la persona e la polis allo stesso tempo. Per fare questo abbiamo bisogno di nuovi linguaggi con cui pronunciare le parole della creatività inedita. Abbiamo bisogno di uno Spirito di Vita nuova per inventare altre metafore e riscattare le persone da un uso che le assoggetta ad un pensiero asfittico, anziché liberante, e così creare un mondo sempre più inclusivo e ospitale del variegato umano, così come si presenta.
Sono pienamente d’accordo con te, Iside. Per cambiare le nostre metafore che fanno riferimento alle disabilità sensoriali e fisiche ci aspetta un lungo lavoro di cambiamento del nostro modo di pensare. Dobbiamo vincere la nostra pigrizia intellettiva, dobbiamo con coraggio saltare i luoghi comuni, accostarci con libertà al mondo. Di quanti condizionamenti personali e sociali siamo schiavi! Grazie perché stamattina mi hai aiutato a pensare meglio! Mariapia
Sono anche io completamente d’accordo, Iside. E specialmente sul fatto che il nuovo mondo comincia con una nuova “parola”. Inizia prima di tutto ad essere detto in modo diverso, e solo allora è diverso, finalmente.
Lavorare sulla parola, sul pensiero, che si apra un pochino di più allo Spirito sempre vivificatore, sempre “avanti” rispetto alle nostre resistenze e sclerotizzazioni (laiche e clericali), è veramente “creare nuova la realtà”, che aspetta esattamente noi per questo lavoro “cosmologico”.
«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9) E Lui risponde, come sappiamo, svincolando totalmente la disabilità dal “peccato”. Ma noi dobbiamo ancora veramente entrarci. Dopo duemila anni, dobbiamo ancora veramente entrarci, in questa risposta liberatrice.
Il mito dell’efficientismo peraltro è una vera piaga: non colpisce solo chi ha qualche manifesta disabilità, ma colpisce anche chi si ritiene “sano” (per quanto questa parola abbia un senso compiuto), perché lo appiattisce su standard e obiettivi prestazionali sempre più elevati, irreali, irrelati con il corpo, con il rischio di ricercare in questo la propria consistenza. E con gli effetti che tutti sappiamo.
Siamo tutti sempre “disabili”, in fondo. Tutti ugualmente bisognosi. Tutti sempre e di nuovo, nella necessità di rivoluzionare il linguaggio, che sia nuovamente poetico, cioè vero, cioè aperto al bisogno, cioè risanante.
Dopotutto, per quanto ci spaventi, per niente di meno di questo, siamo adesso sulla Terra… !
Il linguaggio umano è fondamentalmente metaforico, pieno di immagini e, in generale, di figure retoriche che lo arricchiscono e lo rendono vivo e creativo. Mi pare tuttavia che avremmo bisogno di scoprire più a fondo la letteralità delle parole per trovare anche in questa dimensione una nuova forza creativa. Infatti, tutti sperimentiamo la condizione umana come fragile, esposta e perciò bisognosa. E forse è proprio questa apertura precaria che si fa prerequisito del protenderci nella vita con fiducia ad altro/Altro e diventare così fonte del vero novum.
Questo però non significa, almeno dal mio punto di vista, che siamo tutti disabili, tutti malati, tutti poveri … Percepisco anche qui, come nel post, un uso indebito della metafora, che mi lascia sospettosa. Chiaramente, mi sto portando agli estremi di questo sentire, ma il rischio reale è di livellare le differenze, anestetizzare l’interpellanza che lo scandalo del male produce.
Allora mi chiedo: c’è un modo di dire diversamente la povertà che sento per me in termini di fragilità complessiva, io che però ho uno stipendio a fine mese, rispetto alla povertà di chi non trova lavoro, è sottopagato, di chi anche più radicalmente non riesce ad avere cibo sufficiente, spazio vitale sufficiente nella casa in cui vive ecc?
Siamo abituati al fatto che ogni parola abbia il suo significato letterale e figurato. Mi piacerebbe potessimo riscoprire il senso letterale delle parole e trovare sfumature diverse per dirne il significato figurato senza pugnalare chi vive, suo malgrado, nella letteralità.
iside
La richiesta mi pare alta, oserei dire altissima: richiede una consapevolezza, una sorveglianza sul linguaggio , che è possibile nella forma scritta, ma nella vita quotidiana, nell’imbattersi con dialoghi sporadici… richiede tempi lunghi – ere – e costante doppio lavorio.
Il lavoro su cosa si pensa, su come si pensa.
Il lavoro sulle parole.
Ed una consapevolezza acuta degli intrecci di questa duplice “autodisciplina”.
Mentre scrivo, mi accorgo di correre il rischio di prefigurare una sorta di “standard prestazionale irreale”(cfr. commento M. Castellani)
E ritorno all’impressione da cui sono partita: quella sensazione di un’impresa ardua.
Mi pare, però, di intravvedere una breccia per non rimanere invischiata in questo circolo.
Si tratterebbe di ciò che tu hai chiamato “apertura precaria” e che a me risuona come ritrovato incanto dell’umiltà. Un’umiltà coraggiosa e indocile, non una virtù sbiadita; un modo di stare al mondo che può rendere la comunicazione – quello che diciamo, come lo diciamo – incamminata verso una sorta di custodia e cura di cio’ che di noi e dell’altro è più fragile e vero.
Non so se sono riuscita a spiegare ciò che penso e sento. Ci ho provato.
Grazie.