Un nuovo modo di vedere

Continuiamo a percorrere il testo Fede e Rivoluzione di Marco Guzzi, dopo una prima parte che è stata dedicata ad “aprire il campo”, in buona sostanza: a mettere sul tavolo le coordinate fondamentali di questo lavoro.

Credo sia importante ripassarci per tappe, perché il lavoro qui richiesto non è tanto un’addizione di un contributo di nozioni, nella nostra mente già affollata e stratificata, quanto una sostanziale metanoia, una radicale conversione, una sapiente e necessaria deviazione da una strada ormai sterile ad una più feconda: un tragitto verso un nuovo modo di vedere  tutto, e perciò – cosa che in questo ambito specificamente ci interessa – la scienza nel suo insieme.

Un lavoro di questo tipo, pertanto, cioè un riassetto del sistema di riferimento entro cui vogliamo lavorare, non può normalmente compiersi una volta per tutte, ma assume piuttosto una natura sua specifica, che mi piace definire agricola.  Come se si avesse a che fare con un terreno che ha bisogno di essere lavorato, ancora e di nuovo. Passato e ripassato, con pazienza, perché possa diventare fertile. Altrimenti si rischia che una intuizione possa brillare come sfavillante supernova nel nostro cielo mentale per un secondo o due, ma senza lasciare traccia permanente, senza modificare in modo sostanziale quello stesso cielo.

E quello che non ci trasforma, quello che non si incorpora in noi modificandoci, alla fine non ci serve per camminare.

Del resto, già i latini lo dicevano, La mia vita è il mio campo corroborando in senso pieno questa impostazione. Il libro dunque – a mio avviso – va percorso e ripercorso (ho ascoltato lo stesso autore consigliare di usarlo come una sorta di libro da comodino), perché per favorire questa svolta è necessaria più di una applicazione, è necessario abituarsi ad un sistema di pensiero diverso da quello che assumiamo irriflessivamente dal mondo. Ed è in continuo rilancio di prove e conferme, esplorazioni e nuove scoperte, che – direi in modo molto rispettoso del metodo scientifico stesso – arriviamo finalmente a modificare le coordinate conoscitive di base.

Qual è la traiettoria  che siamo invitati dunque a compiere, e ri-compiere di nuovo ad ogni lettura? E’ presto detto. E’ quella di comprendere come la scienza nella sua autenticità sia un’impresa ben diversa da una compilazione “oggettiva” di indicazioni empiriche. Al contrario, è una impresa che si appoggia integralmente su un atto di fede, su una asserzione positiva indimostrabile dal pensiero razionale. Su una adesione affettiva e non su una conoscenza. Su una consonanza ultima, potremmo anche dire. Scrive infatti l’Autore che

… l’appassionata ricerca scientifica  degli ultimi secoli, questa sempre più minuziosa osservazione della natura, presuppone, per fede, che il creato, anche nella materialità offerta ai nostri sensi, sia un organismo dotato di logica, al punto che l’uomo ne possa scoprire le leggi, e quindi presuppone anche, ed ancora per fede,  che la logica umana abbia una qualche corrispondenza con la logica che governa l’universo.

Dunque un atto di fede, è la scintilla dell’apertura dell’uomo all’impresa scientifica, e non – come alcuni vorrebbero – una liberazione dalla fede. Lo scienziato è propriamente ed innanzitutto un credente, nel senso specifico e molto preciso, che aderisce a un assunto che non può essere sottoposto a dimostrazione. Scommette su di esso, esattamente nel senso pascaliano della “scommessa”. Non credo a chi afferma il contrario: nel vero scetticismo non si dà scienza, non si dà poesia, non si dà nulla oltre la propria esigua orbita interna.

Dunque lo scienziato – così ci dice l’Autore – se prima non crede, non può conoscere. Non “vede” ciò che non accoglie prima con questo atto di fede, non è sintonizzato sul corretto insieme di frequenze, se non ha sviluppato attenzione a quel dato sistema di riferimento.

Senza fede, è semplicemente cieco. Senza questa fede ordinatrice, questa ipotesi di linguaggio gettato come una rete di possibile significato, l’Universo ritorna sfuggente ed inesprimibile, assume una non forma, riprende una indicibilità cosmologica che rifugge da una qualsiasi ipotesi ordinativa, interpretativa.

Ecco dunque che il credere non si dà come ultimo elemento di una sequenza di indagine, non si offre come punto di arrivo, ma è l’elemento primigenio dal quale si sprigionano tutte le evidenze – anche scientifiche – che lanciano il ricercatore nell’indagine sulla creazione. E’ una sorta di punto di partenza, e di perpetua inesausta ri-partenza.

In altri termini, è un ricominciamento quotidiano.

Potremmo dire che in questo c’è – in azione – come una legge universale, c’è come il sottomettersi rispettoso del palcoscenico del mondo alla decisione intima del cuore dell’uomo: la decisione di credere è infatti quell’attitudine iniziale, quella decisione per l’esistere che rende possibile tutto il resto, inclusa l’indagine scientifica.

Diceva già Luigi Giussani che la cultura scatta dalla decisione per l’esistenza. E con cultura, quasi superfluo dirlo, si intende anche l’investigazione scientifica del cosmo, dell’uomo, della natura.

Dunque, fidandoci di quanto ci dice Marco Guzzi, la prima cosa che rende il cosmo ordinato, intellegibile, è l’atto dell’uomo che lo crede tale. Un semplice atto di fiducia, di fede, ordina il mondo. Lo apre all’intellegibilità, gli dona un linguaggio e una sintassi espressiva,  lo predispone ad una via di comprensione razionale.

Tale atto è così implicito, a volte, così radicato nella nostra coscienza di uomini occidentali, che quasi non si avverte più come tale. Ma è quel medesimo approccio che accomuna lo scienziato ateo e il credente, quando si mettono -intorno ad un tavolo, ad una conferenza, in un bar – a ragionare su una teoria, su un set di osservazioni, su una ipotesi. Si comprendono perché si muovono all’interno di un cerchio condiviso, una zona di fede comune. 

Questa fede dona, come primo (assai interessante) “prodotto”, un campo da lavorare, esteso come l’Universo. E la possibilità reale di lavorarlo, come la scienza antica e moderna ci dimostra inequivocabilmente. Scienza che, proprio in quanto tale, si struttura, fin dalla sua più intima gestazione, su precisi presupposti filosofici, come abbiamo cercato fin qui di rendere palese, e come risulta peraltro evidente dal saggio di Francesco Marabotti, di cui abbiamo già pubblicato la prima parte.

 

Autore: Marco Castellani

Astrofisico, divulgatore, scrittore.

8 pensieri riguardo “Un nuovo modo di vedere”

  1. Grazie Marco mi accompagni nella lettura di questo testo che, personalmente non ho sul comodino, ma in borsa. Ogni momento è buono per leggere una parola nuova.
    E tu allarghi l’orizzonte di ciò che leggo. Buon proseguimento!

  2. Cara Gabriella,

    grazie per il tuo commento! Trovo veramente che questo testo (che tu saggiamente porti in borsa, e io spesso nel mio zainetto, come ora) sia così “polifonico” da poter essere attraversato ricercando tanti diversi piani di lettura, e la scienza è certamente uno di questi piani, su cui “vibra” il testo.

    Mi pare insomma che passarci dentro con una specifica attenzione ai richiami scientifici, sia una operazione potenzialmente molto feconda, e a mio avviso anche necessaria.

    Un abbraccio!

  3. I sistemi di credenze ci orientano nell’interpretazione del mondo, la fiducia ci guida nella relazionalità: si tratta di due facce della stessa medaglia, la medaglia della nostra vita, che accade fin dall’inizio come preceduta e quindi non può che affidarsi al mondo che la accoglie. Questa dinamica è costitutiva dell’umano, nessuno vi si può sottrarre e se lo facciamo neghiamo la nostra identità. Seppure non sappiamo chi siamo e ne siamo sempre alla ricerca, non possiamo non affidarci a chi è venuto prima di noi e a chi ci sta accanto, non possiamo non credere per avere una bussola che ci aiuti a dare ordine e senso al mondo che abitiamo. La declinazione di fede nel divino, poi, è appunto una declinazione specifica di una modalità che è inscritta nelle profondità generative della specie. La ragione brama per avere un appiglio cui aggrapparsi, mentre ha bisogno di una cornice leggera dentro cui restare in movimento, perché noi esseri umani siamo “sfondati”, come spesso dice Guzzi. Organismi dalle radici aeree, il radicamento lo dobbiamo costruire giorno per giorno, senza la smania dell’ancoraggio a tutti i costi, nella ricerca fluttuante che si affida ad un substrato lieve, sconcertante e imprevedibile.
    iside

    1. “la ragione…ha bisogno di una cornice leggera dentro cui restare in movimento, perché noi esseri umani siamo “sfondati”, come spesso dice Guzzi.”

      Hai perfettamente ragione, cara Iside. E aggiungo, che la vera fede (e non la proiezione dell’ego, che tenta di “rimapparla” in una serie di impegni, divieti e costrizioni) è leggera, rallegra, alleggerisce, perché è come se il carico di darsi ragione di tutto, venisse in qualche modo sollevato, aiutato, adiuvato. Con tutto beneficio della mente razionale, che può concentrarsi meglio sulle varie cose, così ripulita ed alleggerita. Certo è un processo sempre da riprendere, un “ricominciamento” continuo (mi piace pensarci adesso, proprio alla ripresa degli incontri di Darsi Pace).

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