Facebook e la nuova scienza

Decliniamo in due puntate un viaggio di riflessione tra i social media e una nuova idea della scienza. Il testo che leggerete prende le mosse da un intervento dello scrivente presso la sede di Frascati Poesia, tenuto in data 10 aprile 2018. 

In questa prima parte, muoviamo da una semplice evidenza, che informa peraltro tutta la trattazione, la percorre anzi come sottotraccia: siamo in un momento particolare, nella storia del mondo. Momento che si configura davvero come un cambiamento d’epoca, come dice anche papa Francesco: “si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”, ci avverte, facendo peraltro propria la percezione diffusa in molti acuti osservatori, a qualsiasi fede e professione culturale facciano riferimento.

Se possibile, l’attualità di questo tema è diventata ancor più stringente, per lo scandalo relativo al caso Cambridge Analytica e all’uso (diciamo) “spensierato” di dati personali al fine di manipolare ed orientare le nostre scelte, non soltanto in ambito merceologico, ma anche in occasione di eventi importanti come le elezioni politiche. Questo ha esposto un vulnus, una ferita che riguarda noi tutti, perché noi tutti ci sentiamo in una certa misura invasi e offesi. Una ferita dalla quale dobbiamo e vogliamo imparare, lentamente, a guarire. Anche attraverso un nuovo e diverso rapporto proprio con Facebook, e con i social media in generale.

Per entrare nel nostro tema, riprendo alcuni spunti da un intervento di Giuseppina Nieddu proprio a Frascati Poesia, al quale intendo collegarmi sviluppando una ideale linea di continuità.

Giuseppina scrive che “Quando la scuola fallisce e i giovani si perdono perché si sentono soggetti privi di valore e talvolta diventano molto arrabbiati è perché avvertono che qualcuno ha rubato loro il cielo senza neppure guardarli.” Ed anche, più avanti “Quando i ragazzi, di periferia o di città, che arrivano da Occidente o da Oriente, famelici e audaci, belli e ribelli, insieme a noi vedono e seguono una stella, si apre un nuovo scenario dello stupendo incontro tra la mente e il cuore mostrandoci “il Bambino” che vive in noi”. L’intervento di Giuseppina chiude significativamente con la percezione che “un uso sapiente di Facebook può contribuire a favorire e a diffondere la cultura del dialogo, a cercare insieme parole poetiche per pregustare cieli nuovi e terra nuova ed arrivare a sperimentare come possibile risonanza, l’armonia del canto celeste.”

Ecco, proprio questo canto celeste ci conduce direttamente al nostro tema. E qui siamo subito ad un punto importante. Una percezione risanante del cielo non può avvenire senza una collaborazione della percezione scientifica del cosmo, e a sua volta questa non può accadere – ormai davvero non può – senza una corretta articolazione dell’informazione scientifica nel mondo dei social media.

Ci dobbiamo infatti rendere conto che i social media hanno raggiunto una pervasività enorme (secondo le ultime statistiche, Facebook vanta quasi un miliardo e mezzo di utenti che si collegano quotidianamente) e rappresentano ormai assai spesso una della principali fonti di informazione – in ogni settore e in ogni campo. Ecco spiegata la portata del “caso Cambridge Analytica”, che altrimenti non avrebbe di certo questa pregnanza.

Sono due sono i passaggi cruciali, che svilupperemo nel nostro percorso.

Il primo è che abbiamo bisogno di una nuova nozione di cielo, e questa deve venire da un modo rinnovato di intendere la scienza (ed in particolare la scienza delle stelle e del cosmo, che è quella di cui mi occupo per professione). L’altro è che tale nuova nozione non può arrivare se non si coinvolge in un diverso e più maturo uso dei social network, di cui Facebook – per quanto in crisi – è al momento presente il simbolo per eccellenza.

Perché “una nuova nozione di cielo”? Ebbene, sarebbe illusorio pensare di poter evitare questo lavoro di ridefinizione che attende qualsiasi cosa, qualsiasi ambito. Nei momenti di crisi le cose devono prendere un nome nuovo, devono rinnovarsi, proprio per continuare ad agire nella storia secondo il loro esatto compito. Per dirla in modo paradossale: devono cambiare, per rimanere fedeli a loro stesse.

In questi giorni, appena trascorsa la Pasqua, sentiamo tutti forte una esigenza di rinnovamento, la necessità di dare un nome nuovo alle cose, quel nome nuovo che riporti all’emozione primaria, primigenia, al “primo amore”. Come dice il Papa nella messa della notte di Pasqua, con parole vere e per questo poetiche, “La pietra del sepolcro ha fatto la sua parte, le donne hanno fatto la loro parte, adesso l’invito viene rivolto ancora una volta a voi e a me: invito a rompere le abitudini ripetitive, a rinnovare la nostra vita, le nostre scelte e la nostra esistenza.”

A veder bene, è la stessa scienza a chiederci questa ondata di rinnovamento. La stessa percezione del cosmo non è una invariante, nel tempo. Chiede a noi continuamente di mutare atteggiamento, prima di tutto. E non è una cosa da poco, né cosa per pochi. Basterebbe, al proposito, ripensare ai giorni appena trascorsi, all’eco che ha suscitato nei media la morte di Stephen Hawking, il celebre teorico dei buchi neri, appassionato indagatore dei misteri dell’universo.

Hawking, con la sua sfida alla malattia invalidante che lo affliggeva, ha infiammato il mondo nell’ardore della sua ricerca. Così che qualcosa di molto specialistico è diventato, sorprendentemente, patrimonio comune, un bene condiviso, da tutelare. Questo cosa ci dice? Che la gente ha fame di scienziati veri, cerca una visione scientifica del cosmo in cui collocarsi e dalla quale guardare tutto. Del resto, l’uomo ha sempre avuto una visione condivisa del cosmo, in cui adagiarsi, in cui prendere fiato. Solo nei tempi più recenti si è creata questa frattura, questa anomalia per cui all’uomo – come diceva Giuseppina – è stato rubato il cielo. All’uomo, e non solo ai ragazzi! Ecco dunque il primo passo di questo movimento primaverile di espansione, di ripresa. C’è una mancanza, un vuoto che occorre ripristinare, una ferita che occorre sanare.

Abbiamo sempre avuto un modello di cielo, dicevamo, fin dall’inizio della storia. Poco importa, in questo momento, se fosse scientifico secondo i parametri moderni, o invece – come diremmo oggi – più propriamente mitologico. Dai primi modelli astronomici dei babilonesi, che vedevano il mondo come un disco piatto posato su un immenso oceano, l’uomo è sempre stato accompagnato, è stato guidato nel suo cammino nel cosmo: ogni specifica cultura elaborava una sua storia di universo, in ciò obbedendo alla funzione di rivestire di parole, di rendere raccontabile – e dunque percorribile – l’infinità del cosmo entro cui siamo immersi. Percorribile, perché portatore di significato, costellato di miti e simboli.

Soltanto l’età moderna, con lo squilibrio portato a vantaggio della parte più razionale, raziocinante dell’uomo, ha spinto ed incoraggiato una visione di universo sempre più elaborata e “tecnica”, brutalmente scollegata dall’uomo stesso, asetticamente distaccata dalle emozioni, dalle percezioni e dall’esistenza medesima di chi si pone innegabilmente come punto privilegiato del cosmo, punto cardine: quello in cui il cosmo finalmente osserva sé stesso.

Tale è l’uomo, esattamente: il punto in cui l’universo si osserva, riflette su di sé, si declina in storia, in racconto.

Per ora ci fermiamo qui, dimoriamo su questo punto importante. Lo respiriamo, lo assimiliamo, senza fretta. Nella seconda ed ultima parte, vedremo poi quale può essere specificamente il ruolo dei social nell’urgente compito di “riconsegnare il cosmo all’uomo”. 

Autore: Marco Castellani

Astrofisico, divulgatore, scrittore.

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